– L’INCANTO DELLE INVENZIONI GENIALI –

INTRODUZIONE
Il titolo di questo racconto che inizia in questa riga, indica chiaramente che lo scopo preciso di costituire un inno, una epopea, una magnificenza, una vera meraviglia e non so quale altro vocabolo aggiungere di seguito per far capire come sia LA TECNICA nel suo più vero ed ampio significato, l’argomento che io, alla bella etá di 92 anni, voglio magnificare, innalzare al massimo splendore e funzionalità.
Sussiste una realtà che inficia totalmente questo concetto perchè è già nata ed oltretutto migliora da un giorno, da un’ora all’altra, una tecnica del tutto nuova basata sull’informatica che va sotto il nome di intelligenza artificiale la quale sostituirà quella attuale con un modo di fare complesso ed incognito nel suo completamento foriero di chissà quali novità.
Una cosa è certa ed è la fine pressoché totale di quella iniziativa personale che ho chiamato tecnica e che per me era il vero senso di una vita piena e soddisfacente e che sarà profondamente trasformata a danno dell’intraprendenza ed intelligenza personale ed a favore della utilizzazione di decisioni che definirei meccaniche in quanto derivate dagli algoritmi informatici molto ben documentati dalla infinita possibilità di utilizzazione di esempi esistenti ma totalmente mancanti di idee proprie.
Alla fine sarà questa la vera motivazione di questo testo: mettere per iscritto una meravigliosa tecnica che tra poco non esisterà più oppure sarà così cambiata da costituire una diversa attività e che io, pur nella mia scarsa competenza specifica, considero ingannevole per la gran parte del genere umano.
LA CURIOSITA’ PER IL LAVORO DEL FABBRO
Mia caratteristica saliente, emersa vistosamente fin da giovanissimo, era una grande curiosità per tutto quello che riguardava una macchina nel senso pieno di un elemento qualsiasi che compie un’azione propria oppure essendo messa in movimento da altri, movimento sia rotatorio che rettilineo.
Al mio paese esisteva un’officina che il fabbro Gasperin aveva dotato di molti attrezzi meccanici necessari per il lavoro ma aventi particolarità così interessanti da indurmi a passare molte ore della mia giornata lì di fianco ad assistere al suo lavoro, per me bellissimo.
In quei tempi ognuno dei vari attrezzi meccanici non era affatto munito di un proprio motore come accade normalmente ai nostri giorni. Invece Gasperin aveva dovuto installare sulle quattro pareti dell’officina, in alto appena sotto il soffitto, un ‘asse rotante munita di alcune pulegge che servivano prima di tutto al collegamento dell’asse stessa con il motore destinato a farla ruotare vertiginosamente in tutta la sua lunghezza e, essendo ogni puleggia posizionata di fronte ed in linea con la analoga puleggia di ognuno degli attrezzi meccanici, onde poter farlo girare non appena collegato. Per tale operazione egli doveva usufruire di una lunga scala a pioli e lassù in alto eseguire, a mano, il collegamento meccanico con la rispettiva cinghia in pelle.
Risulta evidente l’immagine delle differenze di lavoro tra quella dei tempi andati e la stessa operazione eseguita ai nostri giorni ed attuata semplicemente schiacciando un bottoncino. Risulta ancora più evidente la mia passione per le macchine rotanti di Gasperin ed in genere per tutte le macchine di qualunque tipo.
La maggior parte del lavoro del fabbro consisteva nella costruzione di elementi in ferro per la cui sagomatura era necessario portarlo al calor rosso tramite la forgia sulla quale ardeva del carbone che creava delle braci rosse e quindi caldissime tra le quali Gasperin infilava il ferro da lavorare per lasciarvelo il tempo necessario a farlo diventare anch’esso di color rosso vivo. Allo scopo era necessario che il ventilatore della forgia, girando vertiginosamente, anch’esso collegato tramite la sua cinghia, emettesse una viva corrente d’aria. Il fabbro, prelevato il ferro rosso con apposita lunga pinza lo lavorava con precisione battendolo sull’incudine tramite una pesante mazza. Si trattava di un lavoro molto faticoso cui le officine più attrezzate ovviavano grazie un voluminoso attrezzo chiamato maglio nel quale una massa pesantissima e mossa da un motore elettrico sostituiva la mazza di Gasperin.
Un bel giorno Gasperin, accogliendomi volentieri come spettatore del suo bellissimo lavoro, mi comunicò che aveva deciso di costruirsi un maglio ed egli, così come si usava in quei tempi, era andato a vedere un vero maglio in lavoro nell’officina di un collega fabbro per osservarlo attentamente e poter iniziare quanto prima possibile la costruzione di uno analogo senza avere nessun disegno né altre indicazioni tecniche che sarebbero state necessarie per farne un buon esemplare. Egli invece, di fronte alla domanda di un ragazzino come me, precisò che non aveva bisogno di alcuna indicazione perché egli avrebbe abbondato nelle dimensioni delle strutture rispetto a quelle del maglio giá visto in modo da essere sicuro del risultato. Io da ragazzo giovanissimo com’ero presenziai in officina molto più del solito a seguire la costruzione del maglio di cui ricordo un particolare interessante che vorrei riportare. Gasperin aveva ben notato nel maglio funzionante, che la massa battente era dotata di due grandi molle in acciaio poste tra la massa battente ed il resto del macchinario e destinate a svolgere l’importante funzione di interrompere le vibrazioni provocate dai continui colpi e pertanto impedire la loro trasmissione alle altre strutture mobili che ne avrebbero sofferto. Egli, non avendo nessuna possibilità di procurarsi le molle, pensò di usare invece una balestra di vecchia topolino Fiat che aveva comprato da un rigattiere. La cosa mi destò una grande meraviglia riflettendo sul fatto che quel maglio sarebbe stato un miscuglio tra attrezzo ed automobile. Resta il fatto che il maglio, sia pur dopo un lungo periodo di tempo, fu ultimato ed io potei vederlo funzionare correttamente.
L’AQUILA CHE SBATTE LE ALI
Premessa la mia continua passione per i meccanismi ed in particolare per il loro moto sia rotatorio che rettilineo, mi ero costruito, nella falegnameria di papà, una grande elica in legno che avevo installato nel cortile di casa in un punto nel quale tirava sempre tanto vento che la faceva girare vorticosamente soddisfacendo la mia vera ossessione delle strutture in moto rotatorio. Un giorno la mia casa fu visitata dal prof, Bressa, un antiquario veneziano che aveva la grande passione di costruire dei monumenti costituendo al mio paese la ben nota area monumentale del monte Cornella. Il prof. Bressa, vedendo la mia elica girare vorticosamente, mi disse che avrebbe fatto anch’egli un nuovo monumento sul monte Cornella avente un’elica rotante. Egli infatti comperò in un campo di raccolta di residuati bellici una grande elica, a suo tempo parte fondamentale nel volo di una fortezza volante, venuta in Italia per i bombardamenti effettuati durante la recente guerra. Tale elica, mossa dal vento, in teoria avrebbe fatto sbattere le ali di un’aquila che egli stesso avrebbe fatto costruire.
Detto e fatto il prof Bressa diede proprio al fabbro Gasperin l’incarico di costruire un’aquila che fosse in grado di sbattere le ali allo spirare dei venti di Quero e soprattutto quelli del monte Cornella che confinava proprio con la stretta delle montagne locali dove spirava molto spesso un fortissimo vento.
Gasperin, come era sua abitudine, in quel momento doveva avere gli elementi necessari per costruire l’aquila e, allo scopo, si recò nella vicina Feltre dove, in prossimità del cimitero, sapeva esservi (e vi si trova tuttora), un bellissimo monumento le cui statue, comprese quattro aquile in riposo, erano state fatte dal grande artista feltrino Carlo Rizzarda. Gasperin tentò di imitare tali aquile nella forma esterna ma aggiungendo all’interno i meccanismi per far muovere le ali.
Dal momento nel quale Gasperin cominciò quel lavoro particolarmente singolare, io lo seguii assiduamente facendomi dettagliare come l’aquila, mossa dall’elica della fortezza volante, avrebbe dovuto anche girare su sé stessa contemporaneamente al movimento delle ali.
Io dissi timidamente il mio parere che, essendo pronunciato da un ragazzino come ero io, non poté essere ascoltato e tanto meno messo in pratica. In realtà Gasperin si trovò in estrema difficoltà nel realizzare il meccanismo di trasmissione del moto dell’elica esterna nei doppi movimenti già indicati, richiedendo logicamente degli ingranaggi costruiti a mano saldando dei piccolissimi denti in ferro costituenti la parte maschile e dei corrispondenti elementi cavi a forma di v per gli ingranaggi femmina, elementi tutti da inserire nel ristretto spazio del ventre dell’aquila. Tutto ciò obbligò Gasperin a non mettere affatto in pratica i miei consigli che avrebbero suggerito di ridurre molto la velocità di rotazione dell’aquila in modo che lo spettatore alla fine vedesse l’aquila girare piano piano mentre il movimento delle ali poteva rimanere più rapido. E’ chiaro che questa differenziazione avrebbe comportato l’aggiunta, di fatto impossibile, di una serie di ingranaggi per cui l’aquila alla fine fu destinata a girare ad una velocità del tutto corrispondente in giri al secondo al numero di movimenti al secondo delle ali. Questo tipo di moto, in sede pratica, si dimostrò impossibile da realizzarsi tanto è vero che l’aquila, finita ed effettivamente posta in opera sull’area monumentale del monte Cornella, non riuscì mai nè a girare nè a sbattere le ali così come avevo previsto io da ragazzino non ascoltato da Gasperin. In pratica quello che mancò all’aquila di Gasperin fu una definizione pratica e realistica dei movimenti.
Oggi l’aquila, recuperata dopo l’abbandono della zona monumentale del monte Cornella, si trova ferma ad ali spiegate nella piazza Duomo della frazione di Quero del nuovo comune di Setteville (BL). Se qualcuno al giorno d’oggi provvedesse a togliere provvisoriamente qualcuna delle lamiere di rame lavorato costituenti il ventre dell’aquila, vedrebbe all’interno gli ingranaggi costruiti da Gasperin i quali, anche se in realtà non funzionanti, rappresentano veramente la notevole bravura del fabbro nella costruzione generica degli elementi in ferro.

La bellissima aquila ad ali spiegate costruita da Gasperin

L’area monumenti costruita sul monte Cornella dal prof. Bressa. Si noti in alto l’aquila con la grande elica sottostante
LE MACCHINE OVVERO LA MIA PASSIONE
Quando io ero ragazzino era ben noto che a Quero nessuno aveva l’acqua corrente in casa essendo coloro che effettivamente ne potevano approfittare, in un numero che non superava quello delle dita dj una mano.
Per i vari servizi tutta la popolazione usufruiva delle cinque fontane pubbliche a getto continuo tre delle quali erano munite di grande vasca dove condurre le mucche ad abbeverarsi mentre per i servizi di casa ci si serviva del bigol cioè di due secchi attaccati ad un legno ricurvo che, appoggiato sulle spalle, consentiva anche a noi giovani di portare i due secchi a casa e metterli appesi al di sopra del grande lavello in pietra presente nelle cucine. Questa era poi la fonte cui sj attingeva per tutti i fabbisogni.
Una delle famiglie che poteva disporre dell’acquedotto in casa era mio nonno Antonio che abitava in fondo di a Piazza Marconi ma il suo servizio idropotabile era costituito da un solo rubinetto posto fuori casa d cioè nel cortile allo scopo di potere effettuare facilmente la più importante operazione e cioè l’abbeveramento delle mucche. Per tutto il resto si adottava la stessa modalità dei due secchi molto semplificata grazie alla breve distanza che intercorreva tra fontanella e cucina potendo evitare l’uso del bigol perchè i due secchi venivano portati a mano.
Questa mia descrizione del servizio idrico deriva dal fatto che io, il ragazzino al primo anno di scuola, ho potuto sperimentare di fatto un mio piccolo macchinario automatico a motore.
Costruita nella falegnameria di papà una piccola ruota come quella del mulino che mi aveva sempre incantato, costruii anch’io la mia piccola ruota di mulino con la quale eseguire, del tutto automaticamente, non la macina del granoturco coltivato da mio papà per ricavarne la farina da polenta di casa ma bensì per un altro servizio che avevo visto svolgere nella filanda di Alano di Piave.
Infatti nell’asse della mia piccola ruota di mulino che avevo installato esattamente in corrispondenza del getto verticale d’acqua della fontanella del cortile del nonno, io avevo inserito concentricamente un rocchetto del filo che mia mamma adoperava per cucire e, messo al fianco un barattolo pieno d’acqua sul quale galleggiava una galletta di un baco da seta pur senza averla preparata come si usava nella filanda e cioè anticipando la bollitura della galletta onde far morire la bestiola contenuta ma usando lo stesso la galletta in modo che, girando, avvolgeva il filo di seta sul rocchetto. Allora io stavo lì ad ammirare questa macchina che da sola estraeva la seta dalla galletta e la avvolgeva regolarmente sul roccolo. Per mé era una cosa meravigliosa che mi sodisfaceva tantissimo .
Per continuare a trattare di questa meraviglia racconto un episodio accadutomi a Venezia quando ero ospitato nella casa del grande arch. Carlo Scarpa. Assieme al figlio Tobia mi divertivo con il meccano e, nel fare questi giochi, ci trovavamo nelle stessa sala dove lavorava l’architetto con suoi colleghi.
Io avevo spiegato a Tobia come costruire un motorino elettrico per usarlo nel meccano. Detto fatto abbiamo trasformato in motorino la dinamo della sua bicicletta per usarlo poi nel meccano con il quale avevamo costruita una macchina con una serie di ingranaggi che giravano a mite velocità e diversificati sensi di di rotazione. A furia di aggiungere ingranaggi il motorino non c’è la faceva più a farli girare. Allora io ho detto a Tobia che ci sarebbe occorso del lubrificante come ad esempio qualche goccia di olio di oliva di quello che sua mamma usava per condire l’insalata. Allora è accaduto un fatto che io rivedo perfettamente perché in sé costituisce una grande meraviglia. L’arch. Carlo Scarpa, che mi aveva sentito fare quella richiesta, sospeso subito il suo lavoro si avvicinò a noi per dirci che l’olio d’oliva non era affatto un lubrificante ma che alla fine avrebbe incastrato i nostri ingranaggi bloccandoli completamente. Questa frase, che io ricordo perfettamente a distanza di molti anni, è una grande dimostrazione che rende noto come il grande architetto, noto in tutto il mondo, aveva chiare in mente le regole fondamentali della tecnica e cioè quella stessa tecnica di cui sto trattando io stesso in queste righe.
Gli esempi riportati daranno sicuramente un’idea chiara della mia passione per le macchine in genere, passione che non sarà comunque sufficiente per far cambiare le decisioni che prenderà successivamente mia mamma nella scelta della mia futura scuola , come si vedrà più avanti.
LE DECISIONI SULLA MIA SCUOLA

La vecchia scuola elementare
Il tempo passava e per me era giunto il momento di decidere del mio futuro. Mio padre che era un bravo falegname che costruiva mobili totalmente a mano non essendo in possesso di alcun attrezzo motorizzato, mi aveva già detto che, visto che noi due suoi figli eravamo in via di maturazione, soprattutto io con i miei 11 anni, egli progettava di vendere le proprietà site a Quero per aprire una moderna falegnameria a Valdobbiadene, un paese che egli ammirava tanto e nel quale avremmo potuto lavorare noi due figli maschi assieme a lui per diventare un giorno due prosecutori di una attività, senza dubbio redditizia e soddisfacente come quella di falegnameria di costruzione di mobili pregiati perché fatti a mano. Questo concetto non venne e affatto condiviso da mia mamma la quale sostenne a spada tratta che, al punto in cui si trovava la società italiana in quel momento, riteneva cosa essenziale per tutti i giovani e tanto meglio per noi suoi figli, di proseguire in qualche modo negli studi. Per convincere il marito su questo punto lei sostenne che, essendo allora nel primo dopoguerra con molte case e costruzioni edilizie reduci dai danni gravissimi appena provocati dalla guerra, la necessità del momento sarebbe stata quella di molte nuove costruzioni edilizie e quindi che la soluzione più logica per il mio futuro era quello di decidere per la scuola geometri.
Io, sentita questa proposta, provai a farle cambiare idea sostenendo che ero appassionato di tecnica, dei motori e quindi dei mezzi di trasporto ma non vi fu niente da fare : per i miei genitori i motori rappresentavano, se confrontati con l’edilizia, un semplice gioco, un’attività poco importante e sicuramente non paragonabile all’edilizia in genere che era destinata a richiedere, in maniera preponderante, la costruzione di nuove case di abitazione e quindi offrire senz’altro un posto di lavoro adatto per il futuro geometra. Tutto questo fa capire come allora mancasse interamente l’idea di quella industria che ormai premeva molto anche in Italia per produrre la vera rivoluzione di passaggio dall’economia agricola esistente ad una preponderante attività industriale. In sostanza la popolazione riteneva tutto ciò niente altro che un’ipotesi irrealizzabile.
Noi due figli avevamo un grande desiderio di continuare gli studi indifferentemente per qualsiasi soluzione e, in realtà, diventammo rispettivamente un geometra ed un ragioniere.
Si deve segnalare come il fatto di frequentare le scuole medie che allora non rientrava affatto nella scuola dell’obbligo e quindi anche le medie superiori a Valdobbiadene, Feltre e Treviso ci consentirono, oltre alla padronanza delle materie di studio, soprattutto lo svolgimento di una vita completamente diversa e molto migliore di quella vigente nel paese d’origine.
Una particolarità notevole era il giudizio dei miei amici coetanei queresi i quali, a partire dai tredici-quattordici anni, dovevano già lavorare aiutando il padre nel lavoro dei campi che allora era la sola attività diffusa in paese. Ad essi, quello che facevo io, in sostituzione del lavoro dei campi, risultava un obbrobrio tanto da considerarmi molto semplicemente uno sfaticato che non aveva alcuna voglia di lavorare. Al contrario, il mio comportamento è subito trasformato in un sentito ringraziamento a mia mamma riconoscendo quale miracolo ha compiuto, lei che non aveva che frequentato le scuole elementari ed era vissuta in un paesino dove la cultura non abbondava sicuramente, nel riuscire a comprendere l’importanza di quei sia pur modesti studi che ha fatto frequentare a noi suoi figli.

Ragazzini al lavoro nei campi
Negli anni seguenti mi è capitato frequentemente di esaminare tutto il corso della mia esistenza constatando con grande piacere quanta importanza abbia rappresentato per me, non tanto e non solo dal punto di vista economico ma invece la splendida vicenda della stessa vita, l’aver sempre potuto spaziare in considerazioni ed in realizzazioni dettate dall’intelligenza e dalla passione di immaginare, di creare, di seguire sempre qualcosa di nuovo, di razionale, di utile sia nelle piccole che nelle grandi realizzazioni cui nella mia lunga vita mi sono sempre dedicato con grande passione.
In conclusione, il vero scopo di quanto vado scrivendo è proprio quello di possedere una cultura di base da ritenersi un minimo indispensabile per far parte della nuova società civile che allora stava nascendo e che attraverso gli anni avrebbe prosperato in maniera straordinaria. Ma soprattutto il grande merito di avermi mandato a frequentare le scuole in città come Feltre e Treviso è stato quello, che ho ritenuto di basilare importanza, come l’introdurmi in un genere di vita civile completamente diversa da quella del mio paesino di origine per cui io mi feci una precisa idea del progresso che stava investendo l’Italia intera ivi compresi i paesini di montagna. Basterà pensare che la famiglia in cui vivevo a Treviso, che era la città abbastanza vicina al mio paese dove esisteva la scuola per geometri, aveva la radio ed il pianoforte che il padrone di casa suonava molto bene: tutte cose che veramente mi trasformarono nelle concezioni fondamentali di una vita piena ed estremamente interessante come quella che si svolgeva nella cultura di cui era pervasa quella casa e gli studenti che vi erano ospitati o che vi pervenivano per amicizia.
Sentirmi affermare che avere la radio era un privilegio può colpire il lettore di queste righe il quale, ai nostri giorni, è addirittura soffocato dalla miriade di notizie, di filmati, di musiche di tutti i tipi che i media ci propinano in continuazione. A quei tempi il solo poter alla sera sentire la trasmissione solo vocale, di una commedia, era per noi una meraviglia. Lo stesso dicasi per la musica della quale eravamo affascinati e tanto più lo saremo nel dopoguerra quando dall’America ci perverrà la musica Jazz che non conoscevamo per nulla.
Alla fine il mio nuovo modo di concepire la vita civile si dimostrerà utilissimo, indispensabile nei fatti che saranno descritti nel seguito sperando di riuscire a dare una chiara dimostrazione dell’importanza che, secondo mè, hanno avuto ed avranno sempre le attività degli esseri viventi condotte con passione, con intelligenza, con grande interesse basato sulla preparazione scolastica in tutto, niente escluso, di quello che si sta compiendo in ogni ora del giorno per la preparazione e per l’esecuzione delle nostre azioni e di quelle dei giorni che seguiranno nel futuro.
LA TECNICA NELLE PROIEZIONI DEL CINEMA DI QUERO
Nell’anno 1950 mentre io frequentavo l’ultimo anno di scuola per geometri, mio padre fu colpito da disturbi di cuore che non gli permisero più di continuare nel suo lavoro di falegname. La mia famiglia pensò di rimediare prendendo in affitto la gestione del cinema Prealpi di Quero che avremmo potuto seguire da noi famigliari da soli.

Nel cerchietto rosso il vecchio cinema di Quero sito in Via Garibaldi
To, ancora studente, mi presi l’incarico che più mi piaceva cioè quello di fare l’operatore della macchina di proiezione il che significava tecnica vera e complessa. Come vedremo, fu quella la prima volta che io ebbi l’occasione di mettere in pratica e con ottimi risultati, le idee che mi frullano in continuazione nella mente, perchè quella volta sussisteva una estrema necessità di mettere in ordine almeno qualcuna delle gravi disfunzioni di quel cinema.
Al tempo della nostra storia la presentazione di un film era basata sul fenomeno della persistenza, per una piccolissima durata, delle immagini nella retina dell’occhio umano.

Il proiettore Cinemeccanica Victoria 4b del cinema Prealpi di Quero
Infatti la macchina di proiezione ha la caratteristica di emettere successivamente una all’altra, delle immagini luminose ferme ed intervallate ognuna da un brevissimo periodo di mancata proiezione ottenuta da un apposito otturatore, durante la sua chiusura del flusso luminoso, la macchina provvede a far scorrere la pellicola da una scena a quella seguente senza che questo movimento possa essere visto dallo spettatore. E’ appunto la citata persistenza che dà allo spettatore l’impressione di un moto continuo dei personaggi della scena.
La pellicola è un nastro di celluloide di 35 millimetri di larghezza che contiene due serie di immagini. Quella più importante è la successione di scene tutte diverse una dall’altra e che forniscono all’occhio umano i continui movimenti dello scenario. Sulla parte destra della pellicola si trova una fascia larga circa due millimetri che è la colonna sonora la quale è percorsa in continuazione da una strettissima lineetta luminosa che legge le continue variazioni di trasparenza della colonna stessa per trasformarle nei suoni comunque costituiti da parole, rumori, musica che formavano il sonoro del film. La pellicola veniva trascinata in modo continuo per un percorso di lunghezza di almeno due chilometri ed ancora di più per i film di maggior durata. Le differenziazioni di moto della pellicola da discontinue davanti al raggio luminoso e continue in tutto il resto era compensata da due suoi abbondanti ricci di percorso che si trovavano appena sopra e sotto il raggio luminoso stesso.

Il percorso della pellicola. Notare il riccio superiore incendiato e da spegnere a mano
La pellicola, ai tempi di cui sto scrivendo, era altamente infiammabile e questo costituiva un pericolo di cui dovrò parlare approfonditamente perché nel caso specifico del cinema Prealpi di Quero, costituiva un grandissimo problema per alcune motivazioni veramente preoccupanti.
Per farlo intendere appieno occorre spiegare il sistema allora usato per dare sul grande schermo una immagine molto brillante utilizzando, ovviamente, le limitate apparecchiature allora esistenti la cui parte essenziale era costituita da una piccola fiamma luminosissima, chiamata arco voltaico, prodotta da due carboni del diametro di circa tre millimetri lunghezza di trenta centimetri ed alimentata da corrente continua.
Anche il dover disporre di corrente continua in grande quantità costituiva un problema che all’inizio (anni 40) era risolta con un sistema rudimentale a lamelle vibranti che in cabina provocava un continuo scintillio molto pericoloso. Dopo qualche anno è subentrato un gruppo convertitore formato da un normale motore elettrico avente affiancata sullo stesso asse una dinamo che produceva la corrente continua. Se in quel modo veniva eliminato totalmente il rischioso scintillio, sussisteva comunque un altro grave pericolo di incendio della pellicola dovuto al grande calore che emetteva il raggio luminoso provocato dall’arco voltaico dei due carboni. Infatti era sufficiente che la pellicola molto infiammabile si fermasse un solo attimo davanti al flusso luminoso perché essa prendesse immediatamente fuoco soprattutto in corrispondenza dei due ricci appena descritti con possibile e successivo incendio dell’intero cinema considerato che era costituito da molte parti in legno. Da notare come il sistema antincendio esistente in cabina era , ridicolmente, costituito da un secchio pieno di sabbia. Io, quando ero il responsabile del funzionamento, non riuscivo nemmeno ad immaginare che della sabba gettata in fretta contro la macchina di proiezione che girava vorticosamente potesse in qualche modo spegnere delle fiamme. In realtà si trattava di un vero bluff per quello che realmente si doveva fare quando la pellicola si incendiava. Come di fatto è realmente successo più volte, il rimedio essenziale ed obbligatorio era uno ed uno soltanto, che sembra inammissibile mentre è verissimo. Immediatamente e non appena si manifestava la fiamma nei ricci di pellicola vicini al raggio luminoso e quindi con la massima urgenza, bisognava fermare la macchina con il bottone rosso di emergenza, e quindi, ed in tutta fretta, spegnere con la sola cosa disponibile urgentemente : le mani. Sembrerà impossibile ma l’agire in tutta fretta aveva un risultato sorprendente perché non si faceva in tempo di percepire il calore alle dita che la piccola fiamma era già scomparsa salvando la pellicola e soprattutto l’intero cinema. Occorre precisare che i carboni descritti, normalmente regolati da un sistema automatico, che però nella macchina in dotazione al cinema Prealpi non esisteva proprio ed il loro avanzamento doveva essere per forza fatto a mano. Per avere la esatta regolazione si era provveduto a fare un forellino sulla lamiera della lanterna dei carboni per consentire che i carboni accesi proiettassero la loro immagine sul muro della cabina dove esisteva una tacca di riferimento sulla quale bisognava riportare e in continuazione ed a mano la immagine di posizione dell’arco voltaico dei carboni man mano che si consumavano.
Si deve comprendere che la mia preoccupazione per il pericolo di incendi fosse grandissima ben conscio come ero che un incendio di tutto il rotolo della pellicola di celluloide lungo chilometri, avrebbe esteso il fuoco a tutto il locale nel quale, tra l’altro, si trovavano stipati all’inverosimile spettatori che occupavano interamente i corridoi di fuga perché la sala era troppo piccola per contenere la ressa di spettatori che provenivano da tutti i paesi circostanti Quero.
A tutto quello già descritto resta da aggiungere una ulteriore possibilità di incendio poiché sussisteva un evento molto importante. Eravamo nel primo dopoguerra ed allora il cinema rappresentava un divertimento determinante in quanto, oltre a costituire una novità in sè e per sé, era l’alta qualità dei film che arrivavano dall’America che era molto elevata, trattandosi di veri capolavori passati alla storia e molto divertenti per quei tempi.

I bellissimi film del dopoguerra
Vista l’alta qualità dei film. i cinema erano sempre pieni di spettatori. Il fenomeno sussisteva inalterato anche per i piccoli locali come era quello in argomento ma con una grande differenziazione rispetto ai cinema delle grandi città. I film che venivano proiettati a Quero consistevano sempre pellicole molto vecchie e quindi di costo molto più basso di quello praticato nelle città dove venivano proiettati sempre gli ultimi arrivi. Tutto ciò aveva un risvolto negativo della massima importanza. Le pellicole che arrivavano al cinema Prealpi avevano di per sè molte piccolissime rotture soprattutto nelle due perforazioni laterali della pellicola. Questo fatto produceva delle interruzioni della proiezione con pericolo di incendio di pezzi di pellicola fermi nella fascia luminosa. Era allora che dovevo stare sempre attento e pronto a spegnere l’incendio con le mani come già detto.
Nonostante la grande attenzione che avevo sempre al fine di dar corso immediatamente allo spegnimento della pellicola in quel rapido modo, ciononostante io ero molto preoccupato e mi scervellavo snella ricerca frenetica dei rimedi ad un così grave pericolo.
Allora, siccome avevamo una sola macchina da proiezione, io dovevo per forza collegare tra di loro i vari rotoli di pellicola, che avevamo ricevuto dalla casa proprietaria, immettendoli uno per uno nella bobina smontabile per avvolgerli poi nelle bobine definitive di proiezione dei vari tempi ( due o tre a seconda della durata di ogni tempo) in modo che la proiezione avvenisse tempo per tempo senza soste. Il montaggio avveniva tramite una manovella girata con la mano destra ed avendo effettuato la saldatura tra di loro delle estremità dei rotoli con l’acetone.

la bobina con la pellicola avvolta
Ad un certo punto ho avuto chiara in mente la soluzione. Poiché il pericolo derivava dalle preesistenti piccole rotture delle perforazioni laterali del nastro di celluloide, io ho deciso di mettere completamente a nuovo la pellicola in tutta la sua lunghezza che arrivava ad un massimo di tre chilometri. In pratica, durante l’intero il montaggio dei film , io facevo passare piano piano la pellicola tra le dita indice e pollice della mano sinistra in modo da controllare in continuazione se la perforazione laterale era veramente integra mentre se invece se vi fossero state già delle rotture percepibili dalla mano sinistra, esse venivano riparate incollandovi sopra un pezzettino di pellicola con perforazione perfetta. L’operazione aveva luogo previa raschiatura dell’emulsione fotografica di superficie onde poter spalmare l’acetone sulla celluloide pulita da ogni sovrapposizione.

La pellicola da 35 mm. A sinistra la colonna sonora. Ai lati le perforazioni facili da rompere
Il lavoro di controllo e riparazione, in sequenza di tutti i rotoli di pellicola, essendo esteso a tutta la sua lunghezza senza alcuna eccezione, duravano due o tre ore a seconda del numero di rotture rilevate e riparate però a fine lavoro io disponevo di un film perfettamente integro e grande era la mia soddisfazione quando constatavo una proiezione continua ed integerrima delle scene dall’inizio alla fine. Un’altra mia cura era quella di incollare all’inizio un pezzettino di pellicola avente una lunghezza precisa che consentiva di partire con il primo fotogramma perfettamente centrato sullo schermo senza bisogno di alcun aggiustamento del quadro.

L’esame della pellicola da riparare
In conclusione dopo aver attuato tutti gli accorgimenti del caso io ero in grado di effettuare una proiezione ideale con tutti i pregi. l’inizio aveva luogo con abbassamento progressivo delle luci di sala, partiva poi la scena con il quadro perfetto e la proiezione continuava tempo per tempo senza rotture o interruzioni di sorta.
Sono da rilevare alcune ulteriori migliorie che il sottoscritto riuscì a portare a termine e soprattutto in merito alla salvaguardia dai pericolosissimi incendi. Considerato che la macchina da proiezione era dotata di un dispositivo di sicurezza costituito da un rocchetto girevole normalmente sostenuto dalla pellicola stessa ma che, in caso di rottura di quest’ultima, esso calava precipitosamente in basso provocando un contatto elettrico che provocava l’interruzione del funzionamento dell’arco voltaico e del moto della macchina e contemporaneo apertura delle luci di sala. Io, direttamente nel mio primo giorno di servizio, ho aggiunto un bottone rosso di sicurezza il quale se premuto in caso di bisogno , ad imitazione del lavoro svolto in automatico, effettuava lo stesso intervento in maniera istantanea e quindi molto più urgentemente di quanto facesse il rocchetto descritto. Devo affermare che durante gli anni seguenti io ebbi da manovrare più volte il bottone rosso non appena percepivo che qualcosa non funzionava bene. In quel modo era garantito lo spegnimento immediato del raggi luminosi evitando il pericolo di incendio della pellicola.
Un altro accessorio da mè aggiunto in cabina, che però costituisce solo una piacevole novità soprattutto per mè, che mi sono divertito a costruirla utilizzando una vecchia resistenza del ferro da stiro di mia mamma, era la possibilità di spegnere gradualmente le luci di sala in modo da migliorare la visione degli spettatori all’avvio della proiezione adeguando gradualmente gli occhi al passaggio dalla forte luce della sala a quella dello schermo molto meno intensa. Si grattava sempre di una apparecchiatura in legno, molto pericolosa perché la resistenza ex ferro da stiro diventava rossa mentre si spegnevano le luci costituendo anch’essa un pericolo di incendio che veniva da mè evitato stando ben attento nella manovra manuale di spegnimento delle luci di sala.
La trasformazione più interessante fu quella della proiezione estiva del film all’aperto utilizzando il cortile adiacente alla sala e che era di proprietà Gobbato il sarto di Quero. Allo scopo si provvide all’apertura di una porta di collegamento ed inoltre di uno squarcio nella muratura perimetrale di grandezza corrispondente l fascio luminoso. Da quel giorno il cinema Prealpi offriva due possibilità di assistere alla proiezione, con uso normale della sala oppure del cortile esterno . In quest’ultimo caso io dovevo provvedere a girare la macchina da proiezione in modo da far pervenire la scena luminosa sullo schermo esterno dopo aver aperto la chiusura provvisoria del muro dalla tenda nera che normalmente la chiudeva. Posso affermare che la possibilità di un cinema estivo all’aperto unita alla bellezza dei film in un periodo che faceva immediato seguito a tempi di guerra caratterizzati da grandi carestie in tutti i settori, ha reso molto apprezzato lo spettacolo cinematografico al punto da aver sempre i posti tutti e occupati spesso costringendo a ricorrere alle sedie della chiesa con le quali tutte le aree della sala, corridoi compresi, erano occupate da spettatori rendendo il cinema estremamente pericoloso per la possibilità, già citata, di disastrosi incendi ad ogni spettacolo .
Invece le cose miglioravano con la proiezione all’aperto dove esisteva un grande cortile, nel quale, chiuse le galline di proprietà del sarto nel pollaio, gli spettatori stavano tranquilli e comodi a godere il film.
Da rilevare che, nel caso si verificasse della pioggia durante lo spettacolo all’aperto, io giravo la macchina da proiezione nel mentre gli spettatori rientravano in sala portandosi appresso ognuno la propria sedia in legno e paglia permettendo di continuare normalmente a godersi lo spettacolo.

Per quanto riguarda la presenza del cinema a Quero esso con l’arrivo della televisione in Italia dovette essere chiuso nel anno 1955 per totale mancanza di spettatori.
L’INIZIO DEL MIO LAVORO
Una volta giunto nell’anno 1951 al diploma di geometra, mia mamma chiese in municipio come poteva fare per parlare con l’ingegnere di Belluno che era il progettista del Comune. Incontrandosi nel giorno fissato con l’ingegnere, gli spiegò che suo figlio era appena diplomato geometra con buoni voti ma che aveva bisogno di incominciare a far pratica e che i genitori erano disposti ad accontentarsi del solo rimborso spese per mandarmi a Belluno nel suo studio allo scopo di aiutarlo nel lavoro e facendo così la necessaria pratica. Io infatti vi trascorsi un intero anno che mi fu estremamente utile per capire come si progettava e soprattutto come si costruivano i fabbricati civili ed industriali.
Era l’anno 1952 ed io mi trovavo diplomato e con una discreta pratica quando incontrai un mio amico e collega che mi cercava perché egli lavorava in uno studio di un geometra che da grande specialista in campo topografico come era, proprio in quei giorni. stava aprendo uno studio a Feltre avendo appena ottenuto un importantissimo incarico di svolgimento di tutte le operazioni topografiche di rilievo e tracciamento degli impianti idroelettrici che dovevano sorgere in un territorio che inizia da San Martino di Castrozza (TN) per finire a Cismon del Grappa (VI) dove sarebbe stata costruita l’ultima centrale idroelettrica. La cosa straordinaria era il fatto che quel professionista aveva bisogno subito di un alcuni geometri .
Io, al solo sentire raccontare tutto questo rimasi stupefatto al veder passare un sogno davanti agli occhi e soprattutto sperare in l’occasione unica della possibilità di entrare in una attività straordinaria e che faceva esattamente parte della tecnica che io avevo sognato fin da bambino pur senza conoscerne le caratteristiche.
L’amico mi presentò portando delle buone referenze per me e facendomi sottomettere ad un interrogatorio svolto tanto bene da avermi accolto subito a lavorare .
LA PASSIONE PER LA GEOMETRIA ANALITICA
Una grande passione che mi era rimasta impressa era la geometria analitica . Quello che mi affascinava era il concetto di base di questa materia che consisteva essenzialmente nel poter risolvere i problemi di geometria prescindendo dalla utilizzazione diretta delle regole della geometria stessa che potevano essere invece immesse in quelle della geometria analitica le quali, una volta imparate, garantivano l’immediatezza e l’esattezza dei risultati.
Io anche a scuola terminata, volendo approffondire la materia, mi procurai un testo di geometria analitica più avanzata di quella studiata a scuola e mi dilettai subito ad impararne l’uso per la risposta ai quesititi topografici che a scuola ci avevano insegnato a risolvere normalmente. Fu in quel modo che io mi preparai nella risoluzione dei problemi più importanti che in sostanza erano dovuti al fatto che allora risultava possibile rilevare con precisione solo le misure degli angoli mentre non esisteva mezzo di misurare con esattezza le distanze e per farlo, dovevamo partire sempre dalla misura di angoli.
MI ricordo che uno dei problemi che sicuramente si sarebbero usati in topografia era quello di trovare le coordinate del punto di intersezione tra due direzioni angolari ed io scrissi un articolo su una rivista dei geometri definito “LA DETERMINAZIONE DEL’INTERSEZIONE DIRETTA MEDIANTE GLI AZIMUT” articolo che, una volta assunto dallo studio topografico Aureli di Feltre, feci vedere al titolare che ne restò ben meravigliato perché nemmeno lui ,che era un topografo esperto. aveva mai sentito parlare di queste soluzioni.
La cosa diventò ancora più interessante quando fu scoperta la calcolatrice Brunswuga doppia la quale consentiva di semplificare ancora di più i calcoli di geometria analitica.

La calcolatrice Brunswiga doppia. Una immagine ripresa dalle istruzioni di uso
L’uso da parte mia di questa straordinaria calcolatrice che anticipava addirittura il sistema di calcolo iterativo basato sul confronto fra due risultati e che sarà molto utilizzato nei successivi calcolatori elettronici, è stato da mè accompagnato da una serie di stampati già predisposti per il suo uso sistematico.
L’IMPORTANZA DELLA TOPOGRAFIA – IMPIANTO IDROELETTRICO DI VAL NOANA
Devo ammettere che fin dall’inizio del mio nuovo lavoro capii che il periodo dopoguerra, un tempo tanto temuto perché eravamo privi di tutto,. era invece foriero di una ripresa di tutti settori, il più interessante dei quali era senz’altro quello della costruzione di grandi impianti idroelettrici dove io ebbi la fortuna di poter entrare per svolgere quel lavoro che, sulla base di quanto imparato alla scuola geometri, rappresentava il non plus ultra di interesse, di curiosità, di soddisfazione per i risultati raggiungibili. A me è il solo pensaread opere così favolose, nessuna delle quali poteva essere costruita se per prima cosa non fossimo noi, dello studio Aureli di Feltre, a tracciarne tutti i punti che la definivano nello spazio, ebbene il pensare a questo mi riempiva di una gioia immensa.

Il famoso teodolite Wild T2 con il quale si misuravano, con la massima precisione, solo angoli
Entrato immediatamente a far parte attiva dello studio di Feltre, potei rendermi pienamente conto che alla base della progettazione risultava necessario il rilievo di tutte le zone di lavoro e soprattutto la creazione di dettagliata rete topografica estesa a tutto il territorio dell’impianto idroelettrico di Val Noana che, nel caso specifico, partiva da S. Martino di Castrozza nel trentino per finire a Cismon del Grappa in provincia di Vicenza e che aveva la determinante importanza di consentire di tracciare tutte le opere comprensive di decine di chilometri di gallerie e di due dighe ad arco cupola. Si trattava di strutture molto complesse, difficili dal punto di vista topografico e quindi per me di grande soddisfazione. Nel primo tempo passato in ufficio io presi padronanza della descrizione dei lavori da fare in pratica, tanto che ebbi subito l’incarico di eseguire i rilievi ed il tracciato della strada che dalla diga di Rocca d’Arsiè arrivava o al piccolo abitato del Corlo in provincia di Belluno. Mi trasferii in cantiere dove, non solo impiegai tutta la mia passione per ciò che riguardava la strada citata e soprattutto del tracciato di tutti i raccordi circolari delle molte curve che la componevano ma al tempo stesso seguii attentamente il geometra che aveva l’importantissimo incarico di tracciare la diga ad arco cupola del Corlo riuscendo ad imparare bene tutte le accortezze di rito. Da rilevare che a soli 21 anni mi trovai responsabile di un lavoro che superava le mie capacità e questo fatto mi dava molta preoccupazione ma ciononostante riuscii a cavarmela bene tanto è vero che , finita la strada del Corlo, io rimasi a Rocca d’Arsiè per eseguire in collaborazione con i colleghi dell’ufficio direzione lavori, la contabilità finale del cantiere di Rocca d’Arsiè.
La cosa si dimostrò importante quando ricevetti dal titolare dello studio l’incarico di tracciare personalmente la diga di Stramentizzo sita a Molina di Fiemme (TN) per la sua metà superiore essendo quella inferiore già costruita.
Devo ammettere che, trovarmi a 23 anni ad essere responsabile della posa ogni mattina del tracciamento dei punti in base con i quali i carpentieri mettevano in opera le casseforme in modo che ogni giorno la diga potesse aumentare in altezza di due metri fu per me di una soddisfazione incredibile. E’ da rilevare come io, ogni giornata, terminata la posa dei punti in diga, dovevo effettuare i calcoli relativi agli elementi necessari per il giorno dopo tenendo presente che allora ci venivano consegnate solo le equazioni matematiche che definivano nello spazio e quindi sia in planimetria che in altimetria tutti i dati caratteristici della diga. Partendo dalle equazioni, io dovevo, nel sistema topografico locale in coordinate cartesiane, determinare il valore dei vari elementi come i raggi di curvatura, le coordinate dei centri da cui partivano i raggi, gli angoli di apertura di tutta la diga e dei punti da tracciare ecc. ecc. . Si trattava di migliaia di punti che servivano a definire tutta la diga nello spazio man mano che venivano tracciati sul posto tramite gli strumenti topografici posti in stazione sui pilastrini, di cui parlerò più avanti, per la loro definizione piano altimetrica esatta ed inoltre, tramite detti elementi di tracciamento anch’essi da calcolare ogni giorno. Importante rilevare come allora non esistessero calcolatrici di sorta ed anche le singole operazioni elementari di moltiplicazione, divisione, ecc. dovevano farsi a mano oppure, per i numeri a molte cifre, con i logaritmi che sono quel sistema che trasforma le moltiplicazioni in somme e le divisioni in sottrazioni. Quello che è certo che il lavoro più importante e più difficile era proprio quello dei calcoli preparativi.
Il tracciato della diga rappresentò per me una grande soddisfazione per l’impegno che vi misi. Un evento affascinante fu quello relativo al ponte stradale che correva nella parte superiore della diga. Si trattava di un ponte che correva su tutta la sommità del grande manufatto e, come era tutta la diga, non rettilineo ma curvo. Quando si avvicinò la necessità di pensare al tracciato di quel ponte, io proposi al capo carpenteria di evitare di costruire le casseforme in legno lassù in alto sulla diga perchè io sarei passato direttamente in falegnameria a dare tutti gli elementi geometrici per poter costruire la cassaforma direttamente lì salvo trasportarla poi sulle pile già costruite. Così fu fatto e quando, giorni appresso, io assistetti all’arrivo con la gru delle casseforme in curva del ponte, nel vederle appoggiare sulle pile con grande precisione fui veramente felice.

La diga di Stramentizzo. Si vede il ponte curvo in corso di costruzione
A questo punto devo raccontare anche la vicenda di un mio errore nella determinazione di uno solo tra i moltissimi punti della diga. La cosa mi dispiacque moltissimo perché dovetti constatare che il mio errore aveva provocato una piccola spanciatura in fuori del paramento di monte della cupola in cemento armato cui si è rimediato il giorno dopo con il tracciato esatto dei punti posti due metri più in alto. Oltretutto il mio errore, essendo la diga simmetrica rispetto all’asse, si ripeteva anche nell’altro lato simmetrico della diga stessa.
Mi tocca però aggiungere che quel piccolo errore, molti anni dopo costituì per me un vero piacere perché mi diede modo di di far vedere a parenti ed amici con i quali ero andato a visitare, con commozione, quella diga che avevo tracciato io molti anni prima da ragazzo. Infatti come arrivavo sul ponte della diga facevo sporgere gli amici ed osservare il difetto portandoli subito dopo all’altro lato della diga spiegando che essa era simmetrica ma che comunque quella era la prova che quella diga la avevo tracciata effettivamente io perché nessun’altra persona al mondo poteva essere al corrente di quel piccolissimo difetto, soprattutto a distanza di molti anni dalla data di costruzione.
Finita la diga di Stramentizzo accadde che la Società Selt Valdarno di Firenze mi interpellò per offrirmi di lavorare quale loro dipendente. Si trattava della costruzione dell’impianto idroelettrico di Gargnano in provincia di Brescia comprendente il lago di Valvestino.
Allora mi dedicai ad un lavoro diverso che era non più la esecuzione di tracciati esecutivi ma invece del controllo dei tracciati medesimi fatti dall’impresa costruttrice. Nel frattempo le cose erano molto cambiate in quanto erano arrivati i primi computer con i quali era molto più facile eseguire, direttamente ad opera del progettista stesso, i calcoli che prima eseguivamo in cantiere ed a mano. Io allora ero diventato responsabile del controllo topografico del tracciamento di tutto l’impianto idroelettrico e lo dovevo fare in maniera del tutto diversa. Infatti la mia prima cura era quella di verificare nella sostanza di base i tracciati esecutivi man mano che aveva luogo la loro definizione che poi culminava nella stampa delle migliaia di numeri da consegnare all’impresa e necessari per la costruzione delle opere. Nello svolgimento di tale incarico io non mi preoccupavo principalmente delle modalità seguite dall’impresa nel tracciato esecutivo ed invece mi preoccupava la mia società nella formulazione e nella stampa di montagne di numeri poiché in quel tempo si fornivano alle imprese non le equazioni come già descritto ma addirittura i dati numerici pronti da usare per il tracciato. Devo dire che la mia preoccupazione principale non era quella di verificare i punti durante il tracciamento ma invece di prevenire eventuali errori fatti perché l’abitudine di veder uscire dal computer migliaia di numeri considerati tutti esatti richiedeva l’importantissima azione di verifica pratica grossolana nella esecuzione effettiva in posto. Ed era questa la mia preoccupazione che io eliminavo eseguendo dei campioni di tracciamento sul posto di qualche punto importante verificandone preventivamente il rispetto dell’esecuzione del lavoro e la sua congruenza con il progetto esecutivo, ubicando sul terreno alcuni punti importanti. In questo senso accadde che io scoprissi un errore di calcolo di una intera serie di punti diga e quindi tutte le pagine già stampate dovettero essere ricorrette e ristampate ma però venne confermata l’importanza del mio lavoro eseguita, come detto, non tanto in qualche sporadico controllo di tracciamento effettivo dei punti ma piuttosto nella verifica preventiva della assenza di errori grossolani nella esecuzione di operazioni abitudinarie in gran parte attuata al computer.
Nel primo anno di mia permanenza in quella zona mi occupai anche della esecuzione di piccoli rilievi del terreno necessari per la progettazione di opere secondarie come l’imbocco e sbocco delle gallerie oppure la casa del guardiano.
LA DETERMINAZIONE TOPOGRAFICA DEI PILASTRINI DI TRACCIAMENTO DELLA DIGA DI VALVESTINO
Molto importante fu la determinazione delle posizioni reali e topografiche, sulle pareti verticali in roccia, dei punti di riferimento necessari per il tracciamento della diga. Allo scopo eseguii una piccola rete di triangolazione per la determinazione rigorosissima delle coordinate dei pilastrini dove posizionare poi gli strumenti necessari per il tracciamenti dei punti di costituzione della diga. Ho scritto rigorosissima in quanto ero a perfetta conoscenza dell’importanza di quel lavoro e quindi e dei numerosi controlli atti a darmi la piena sicurezza della loro effettiva precisione. In questo senso mi sento in obbligo di raccontare come mi sia ritenuto offeso nella mia dignità in quanto la mia direzione di Firenze mi avvertì che sarebbe venuto in un professore dell’università di Pisa a controllare quegli importanti pilastrini. Quando il professore di topografia arrivò io ebbi l’incarico di accompagnarlo per tutta l’esecuzione del controllo. Egli era munito di un modernissimo strumento Wild con possibilità di misura diretta delle distanze tramite una stadia orizzontale da piazzare su apposito treppiede. Per il suo controllo il professore eseguì una sua piccola triangolazione vista la comodità di poter misurare direttamente le distanze, cosa che noi non potevamo fare. Accadde però un problema determinante. Era d’inverno ed in cantiere faceva molto freddo. Io mi accorsi che spesso il professore sistemava il treppiede del suo nuovissimo strumento su ghiaccio vivo senza sapere una cosa elementare e cioè che il ferro di punta del treppiede scioglieva il ghiaccio ed infatti egli continuava a mettere in bolla lo strumento senza mai riuscire a farlo stare fermo. Io sapevo benissimo che tutto ciò impediva la precisione del suo lavoro, vanificando totalmente il controllo stesso ma io stetti in silenzio poiché, ovviamente, un controllato non può intervenire nel compito del controllore.
A lavoro finito quando il professore mi salutò io gli chiesi di poter fargli alcune mie precisazioni e, consegnandogli il mio elenco di coordinate di tutti i pilastrini, gli dissi: Professore io sarò il responsabile del tracciamento della diga che sarà fatto basandosi su quei pilastri che lei ha controllato. Si ricordi che io li avevo già rilevati molto accuratamente e queste sono le coordinate esatte dei punti di ogni pilastrino. Io sono sicuro che i suoi risultati non coincideranno affatto con questi ma si ricordi che qualora lei facesse modificare queste coordinate che io le ho dato, io darei le dimissioni da responsabile del tracciato della diga e lei stesso allora dovrebbe prendersi personalmente quella responsabilità a seguito dei suoi nuovi dati diversi dai miei. Allora il professore capì esattamente cosa era successo, si ricordò dello strumento che non era in bolla e si sentì ben convinto che il suo lavoro era sbagliato e mi rispose : stia tranquillo i miei risultati non faranno che confermare i suoi. Infatti mi arrivò una comunicazione della direzione che mi trasmise che le verifiche effettuate dal professore avevano perfettamente confermato i miei dati i quali pertanto potevano essere utilizzati per tracciare la diga, il che ovviamente ebbe seguito con risultati ottimali.
Io aggiungo un commento : ma questi professoroni non hanno mai capito che la teoria da sola è cioè senza nessuna pratica serve solo a pontificare stando seduti in cattedra?
IL MATRIMONIO E LA SUCCESSIVA NECESSITÀ DI CAMBIARE LAVORO
Nel 1960 io mi sposai e mia moglie fin dal primo giorno di convivenza venne a vivere in cantiere di alta montagna dove non c’era nulla al di fuori del cantiere stesso con tutti i suoi macchinari ed inoltre le numerose baracche in legno dove dormivano gli operai e dove erano i nostri uffici di direzione lavori. A me venne predisposta una baracca ammobiliata dove andai ad abitare stabilmente con moglie. Lei non aveva potuto visitare prima il posto per il mancato permesso di suo padre quando aveva saputo da mé che il viaggio in andata e ritorno imponeva di stare fuori casa una notte.
Eravamo in comune di Gargnano (Bs) ma in alta montagna in un luogo che aveva le buone caratteristiche per costruirvi lo sbarramento tramite una alta diga ad arco cupola atta ad accumulare un grande volume di acqua che avrebbe formato il lago di Valvestino avente una duplice alimentazione poiché l’acqua del nuovo lago aveva una funzione diversa dal giorno alla notte. Infatti se durante le ore diurne essa, tramite adeguate gallerie e condotte forzate, veniva fatta precipitare sulla centrale elettrica sita al bordo del lago di Garda in Località Gargnano per produrvi energia elettrica, di notte l’impianto utilizzava l’energia elettrica in esubero per rimandare, tramite pompaggio, l’acqua del lago di Garda nel lago di partenza a Valvestino. Si trattava e si tratta tuttora di un impianto idroelettrico di tipo reversibile cioè in grado sia di produrre energia sia di utilizzare energia elettrica di esubero rispetto ai consumi, per costituire la riserva dell’energia prodotta quando non serve come accade per i pannelli solari nelle ore notturne. Da specificare che anche le macchine erano reversibili ed infatti le turbine potevano fungere da pompe quando dovevano sollevare l’acqua del lago di Garda per mandarla in alto nell’altro lago mentre gli alternatori fungevano da motori .
Devo dire che mia moglie si trovava molto bene in quella situazione di vita perché eravamo insieme ed io avevo modo di mandarla con l’autista della jeep della società a Gargnano a far provvista del necessario. Oltretutto lei, utilizzando le molte pietre che arrivavano vicino a casa durante lo scoppio delle mine di cantiere, si era costruita, lungo la scarpata del terreno montagnoso attorno a casa, dei muretti a secco con delle aiuole dove aveva piantato fiori in modo che io, stando in diga dove lavoravo, potevo ammirare la nostra casetta circondata da fiori molto colorati.

Il villaggio della direzione lavori di Valvestino. A destra la mia casa

L’ingresso della mia casa a Valvestino
Questa nostra allegra vita familiare continuò per circa un anno percorso il quale lei si trovò incinta e questo comportava per me un grande cambiamento di lavoro non essendo più possibile che io continuassi a soggiornare assieme a lei in cantieri di montagna poiché questo era la mia destinazione nei successivi anni.
Allora la società civile , reduce da una guerra spaventosa, aveva iniziato la ricostruzione con uno sviluppo tumultuoso che riguardava molti settori, da quelli edilizi, alle strutture pubbliche ed in genere che mancavano totalmente per finire, con un vivo progresso tecnologico. In sostanza rifiorivano mille attività e non c’era nessun problema per un tecnico come me ormai esperto a trovare lavoro. Tra tutte le possibilità che mi si presentarono scelsi quella di una grande società francese che progettava, costruiva e gestiva acquedotti in varie parti del mondo ivi compresa l’Italia, avendo un ufficio staccato da Parigi e posto a Venezia. Fatto un breve esame venni assunto a Venezia per far parte di una compagine di circa una cinquantina di dipendenti che svolgevano il doppio lavoro di progettare e di gestire diversi acquedotti sparsi in Italia.
UNA NUOVA TIPOLOGIA DEL LAVORO DA SVOLGERE
Risultava evidente che, nel nuovo posto di lavoro, avrei svolto un’attività completamente diversa da quella da me seguita fino a quel tempo e della quale avevo acquisito una ottima competenza. Io però avevo fissa in mente una convinzione che mi induceva a sperare per il meglio ed era quella di essere sicuro che in qualunque tipo di organizzazione io andassi a finire avrei sempre trovato un settore di quella tecnica che mi soddisfaceva in toto. Infatti anche nella nuova situazione ebbi immediatamente modo di capire che vi esisteva una tipologia di impegno lavorativo che mi sarebbe sicuramente piaciuta nel mio nuovo posto di lavoro. Questa affermazione era la conseguenza di un dovere che io mi ero prefissato fin da giovanissimo e che era quello di cercare continuamente fino a scoprire, in ogni caso ed in qualunque posto, un lavoro adatto alle mie capacità e soprattutto alla mia passione che erano quelle esclusivamente tecniche.
Ebbi la fortuna di dipendere direttamente da un ingegnere che capì così bene queste mie caratteristiche da mettermi fin dall’inizio di far parte della progettazione. All’inizio di questa mia nuova attività le prime parole che egli mi disse mi piacquero molto perché contribuirono a rafforzare le convinzioni che io ritenevo fondamentali. Egli infatti mi comunicò testualmente: si ricordi che qui noi dobbiamo fare sempre opere ben fatte.
Egli da quel giorno mi preparava degli appunti scritti di suo pugno con cui mi spiegava la progettazione degli acquedotti e delle fognature. Devo ammettere che questi nuovi settori mi interessarono subito e mi spinsero a buttarmi dentro a corpo morto tralasciando completamente il servizio di ordinario esercizio degli acquedotti.
Io, in particolare, rinunciai all’impegno di manutenzione notturna che consisteva soltanto nel restare disponibile, a turno ed a casa, la notte per intervenire in caso di disservizi improvvisi. Era questo un servizio che richiedeva pochissimo lavoro ma un compenso mensile consistente perché avrei avuto la responsabilità notturna del rifornimento idropotabile della città di Venezia insulare che rappresentava il nostro impegno con la piena responsabilità sia che si verificassero delle riparazioni da fare anche di notte sia che non accadesse nulla di male. Io però vi rinunciai ben volentieri perché non c’era nulla da imparare. In compenso partecipai alla progettazione e costruzione di importanti acquedotti dei quali, assieme all’ingegnere direttore, studiammo nuove soluzioni soprattutto grazie all’arrivo di nuove apparecchiature e soprattutto dell’informatica che impiegammo subito in importanti gestioni dei servizi. Alcune soluzioni messe in pratica in assoluta novità, oltre a costituire un vero progresso della tecnica contribuendo alla loro applicazione in molti altri sistemi acquedottistici e di fognature posti al di fuori della competenza della mia ditta, diedero la prova di risultati sorprendenti sia per la semplificazione delle opere da costruire e da gestire e soprattutto per la diminuzione delle spese di esercizio cui corrispondeva un beneficio economico di gestione anche a vantaggio della società cui io dipendevo con il lavoro.
GLI ARGOMENTI DI IDRAULICA DA INTRODURRE NEL RACCONTO
Nel mio racconto io cercherò di limitarmi ai soli aspetti che possono interessare e quindi a scrivere degli episodi piacevoli e leggeri allo stesso tempo.
Una cosa che appare evidente quando si inizia a studiare il problema del servizio idropotabile è la scarsità idrica che porrà sempre di più problemi nel trovare delle fonti in grado di far fronte al continuo aumento del fabbisogno.
La risoluzione, nel mio caso di ingresso in quel nuovo settore, mi ha portato alla ricerca di nuovi metodi di produzione ed inoltre all’economia ed al risparmio di quel bene supremo che è l’acqua potabile, cercando sempre il suo minor costo, la praticità di raccolta, di utilizzazione e soprattutto la salvaguardia dell’ambiente. Infatti la soluzione che intendo descrivere in anteprima rispetto alla immensa mole di nozioni relative alla materia, alla fine si rivela semplice e poco costosa contribuendo alla risoluzione reale del problema ed interessando sicuramente i lettori.
Sono note alcune caratteristiche delle fonti di acqua potabile, ma sussiste una norma molto importante ma poco nota e poco rispettata. Tale regola stabilirebbe che il miglior modo di produrre acqua potabile sarebbe quella di evitare al massimo possibile l’escursione delle quantità di acqua prelevate dalla natura, insistendo invece sulle innovazioni che garantiscano una portata d’acqua potabile uniforme per tempi il più lunghi possibili evitando al massimo possibile, sia nella produzione che nella effettiva gestione, le grandi escursioni aventi tempi brevi di durata : se variazione deve esserci, essa deve aver luogo solo riuscendo a mantenere tempi lunghi di effettiva uniformità di portata.
Alcuni esempi forniscono motivazioni convincenti.
Nel caso di prelievi dalla falda sotterranea mediante pozzi profondi, questi soffrono molto le elevate escursioni di portata che avvengono nelle ore diurne in quanto la messa in moto giornaliera delle pompe dei pozzi provoca dei rilevanti abbassamenti della falda la quale avviene proprio allorché essa è già bassa a causa dei molti usi diurni. Contemporaneamente l’eccezionale prelievo d’acqua provoca il movimento di sabbie e limi presenti nella falda artesiana che finiscono per ostruire i filtri dei pozzi. La buona regola di uscita dai pozzi stessi di una portata costante 24 ore su 24 garantirebbe che il movimento dei limi avesse luogo solo al momento iniziale escludendo danni per tutto il successivo tempo di prelievo costante ottenendo l’importante risultato di una maggior durata dei pozzi stessi.
Una volta definito che la miglior modalità resta quella di produrre portata costante d’acqua potabile per tempi il più lunghi possibile, restano da definire le modalità per poterlo effettivamente attuare !.
La maniera più semplice e più diffusa sarebbe quella della presenza di serbatoi costruiti proprio per effettuare la compensazione giornaliera delle portate in maniera facile mediante un sapiente accumulo degli esuberi notturni per poi potere, con essi, fronteggiare le punte di consumo delle successive ore diurne. Una volta determinata la capacità dei serbatoi giornalieri il problema non è affatto risolto in quanto, anche nella realtà, ciò che difetta resta il loro esercizio.
Il vero problema riguardante il funzionamento reale dei serbatoio giornaliero è quello causato da una errata teoria insegnata alle università nello studio degli acquedotti in quanto essa si limita a definire la soluzione , a fortiori, dei giorni di maggior consumo ritenendo che, risolto quel problema, siano risolti tutti i problemi.
In realtà la soluzione insegnata trova una vera attuazione solo nei giorni di massimo consumo nei quali gran parte degli acquedotti, che sono forniti sic et sempliciter di galleggianti che chiudono l’immissione in serbatoio quando esso è pieno per aprirla quando tenta a scendere, essi, in tal modo, effettuano regolarmente la compensazione delle portate a causa della limitazione della disponibilità idrica che obbliga i serbatoi a vuotarsi di giorno del volume accumulato la notte precedente. Sistemato il funzionamento del giorno critico, i teorici ritengono fermamente di essere a posto, a fortiori, nei giorni di minor consumo. Tutto questo non corrisponde affatto a verità ed infatti in quei giorni di basso e medio consumo, che in realtà si ripetono nella grande maggioranza dell’annata, la esuberante portata dell’acqua prodotta rispetto ai consumi, mantiene i serbatoi sempre pieni o quasi pieni per tutte le giornate di bassa richiesta, fornendo al gestore della acquedotto la falsa soddisfazione di avere un acquedotto perfetto mentre nella realtà, in molte delle giornate annue, viene annullata la funzione precipua dei serbatoi che é quella, importantissima, di compensazione delle portate essendo, come detto, i serbatoi sempre pieni. Il risultato è un prelievo dalle fonti che è soltanto giornaliero mentre la notte è limitato a pochissimi volumi. Ne deriva inevitabilmente un funzionamento che è il contrario di quello descritto che avrebbe dovuto tendere ad una produzione costante per tutte le 24 ore della giornata. Per ottenere questo risultato, si sarebbe dovuto alle ore zero cominciare a produrre una portata esattamente corrispondente alla portata media delle successive 24 ore, cosa assolutamente impossibile perché nessuno al mondo è in grado di conoscere il futuro delle prossime 24 ore. Chi scrive ha però trovato il modo di avvicinarsi molto alla portata media del giorno dopo adottando una modalità di regolazione dei serbatoi giornalieri da considerarsi veramente straordinaria per i risultati avuti e verificati da esempi reali sia nel funzionamento effettivo e sia dal punto di vista economico, ottenendo effettive conclusioni ottimali anche nella economia di gestione di acquedotti risultanti con meno spese di energia elettrica e maggiori introiti per l’aumento dei consumi dovuti all’aumento di pressione dell’acqua opportunamente praticata nei momenti di grande utilizzazione. Il sistema offre il grande vantaggio di realizzare una notevole economia di consumo di energia elettrica con la consegna notturna dell’acqua a bassa pressione .
L’ottimale risultato è stato ottenuto rovesciando il problema. Infatti la mia vera preoccupazione è stata quella di imporre, in maniera tassativa, al serbatoio di svuotarsi in ogni ed in tutti i giorni sia di alti che di bassi e medi consumi e quindi anche nei giorni di bassa richiesta degli utenti, in modo di garantire un funzionamento razionale in qualsiasi situazione di esercizio soprattutto evitando ciò che accade nella realtà di una grandissima parte degli acquedotti italiani. e di cui si è già data spiegazione.
Per ottenere tutto ciò in maniera ottimale, è stato sufficiente disegnare il grafico dei livelli che il serbatoio doveva assumere sistematicamente in tutte le giornate dell’anno, nessuna esclusa e quindi imporre al sistema di controllare il livello reale nel serbatoio in tutte le giornate dell’annata, ed intervenendo a riportarlo immediatamente e continuamente ai livelli teorici effettuando automaticamente la variazione della valvola di immissione nel serbatoio. Tutto questo doveva accadere senza preoccuparsi della portata prodotta ma soltanto dei livelli reali del serbatoio.

La cosa si vede immediatamente osservando il modello di grafico dal quale risulta chiaramente che il serbatoio risulta riempito durante la notte in modo di avere il livello massimo alla mattina alle ore 7 per cominciare poi a svuotarsi con un andamento corrispondente ai migliori esempi di gestione reale e cioè immettono in rete molta acqua dalle ore 7 alle ore 12 considerate il tempo di massimo consumo dell’utenza . Nella medesima maniera viene fissato il livello di tutte le 24 ore della giornata ottenendo continuamente una corretta immissioni in serbatoio grazie ad una regolazione automatica e continua della valvola di immissione in serbatoio e tutto questo senza alcun controllo delle portate che risultano ogni giorno condizionate soltanto dal rispetto dei livelli del serbatoio. Verificando il grafico effettivo di funzionamento di acquedotti muniti di questo tipo di regolazione, a livelli del serbatoio imposti, si è potuto constatare come veniva rispettata, a grandi linee, una produzione quasi costante per tutte le 24 ore ed in ogni giornata una portata molto simile a quella media giornaliera di consumo e cioè simile a quella portata che abbiamo definito come impossibile da prevedere in anticipo. D’altra parte si deve considerare che la soluzione descritta non fa altro che immettere in rete in tutte le giornate il volume del serbatoio, volume che dalla progettazione era stato definito come quello di compensazione vero e proprio.
In conclusione, se tutti gli acquedotti adottassero la regolazione a livelli imposti, senza dover sostenere delle spese per esecuzione di opere ma soltanto effettuando una buona regolazione dei serbatoi imponendola nel programma di funzionamento del computer e quindi senza eseguire affatto costose opere, si otterrebbe una buona economia nel prelievo dalle fonti.
Inutile asserire che il sottoscritto ha cercato di diffondere l’adozione della procedura descritta non ottenendo risultati di sorta. Il modello di regolazione dei serbatoi di compensazione giornaliera che trionfa al giorno d’oggi è soltanto funzione della distrettualizzazione con la quale si ottiene la tanto importante riduzione delle percentuali di perdita senza però fare alcun controllo delle altre condizioni di funzionamento ed imponendo con tale maledetta distrettualizzazione, che si va diffondendo sempre di più, un coperchio tombale sopra gli acquedotti , pietra tombale che provoca la morte reale della gran parte degli acquedotti distrettualizzati ma rimasti troglodici.
UN ESEMPIO DI ACQUEDOTTO GENIALE – IL CONSORZIO BASSO TAGLIAMENTO
Il Consorzio Basso Tagliamento con sede a Fossalta di Portogruaro (VE) é sorto negli anni 70 per dare opportuna distribuzione di acqua potabile in un vasto territorio della provincia di Venezia che comprende numerosi paesi di terraferma e soprattutto il centro turistico di Bibione avete 2500 abitanti fissi che diventano 160 000 (centosessantamila) nel culmine estivo .
Dal punto di vista dell’approvvigionamento di acqua potabile iniziato effettivamente negli anni 70, il territorio consortile presenta delle grandi difficoltà per il problema dovuto alla grande diversità di tipologia dei centri urbani e poi in funzione dell’ubicazione delle fonti di acqua destinate al rifornimento. Infatti fin dall’inizio degli studi si era trovata una fonte atta a far fronte ai fabbisogni ma situata al di fuori del territorio consortile essendo posta in una frazione di San Vito al Tagliamento e ad una distanza di 45 chilometri da Bibione. In poche parole erano due i problemi principali da risolvere. Il primo consisteva nell’alimentare una decina di centri abitati aventi ciascuno un numero di abitanti fissi inferiore ai 5000, sparpagliati nell’ampio territorio nel mentre Bibione, il centro più importante, presentava, dal punto di vista idropotabile, due pressanti difficoltà che erano in primo luogo quello di trovarsi alla distanza di 45 chilometri dalle fonti ed inoltre avere una grandissima escursione nel numero di utenti variabile dai 2500 abitanti fissi che diventano 160000 turisti per un periodo breve esclusivamente estivo. Se a tutto questo si aggiunge un’altra difficoltà, costituita da disponibilità economiche prevedibili soltanto in finanziamenti parziali e distribuiti in un lungo periodo, si capiscono i grandi problemi da risolvere per arrivare ad un risultato valido. Potendo descrivere a posteriori la situazione definitiva ed effettiva dell’intero sistema idropotabile in argomento si può dichiarare che il progetto esecutivo è stato veramente geniale e come tale non si può evitare di farne qui almeno una sommaria descrizione che brillerà notevolmente per le molte curiosità che la riguardano.

Planimetria del territorio del Consorzio Acquedotto Basso Tagliamento
La parte del grande acquedotto realizzata prima ancora di iniziare la progettazione generale dell’intero sistema idropotabile, rappresenta il concetto fondamentale dal quale è derivata tutta la successiva progettazione. In altri termini se l’acquedotto effettivamente realizzato è stato definito geniale lo si deve proprio all’aver ritenuto necessaria la verifica delle fonti anticipata anche nei riguardi della progettazione di tutto il resto.
Infatti si procedette in anteprima alla realizzazione di sette pozzi in località Savorgnano cioè a distanza di ben 45 chilometri da Bibione che rappresentava l’utenza più importante di tutto il sistema. In realtà la costruzione dei sette pozzi e soprattutto l’accurata rilevazione delle caratteristiche di falda fornirono subito degli elementi concreti nelle decisioni da prendere.
La falda artesiana si rivelò dotata di caratteristiche straordinarie per la quota naturale del suolo pari a 25 m sul livello del mare e soprattutto per il livello di falda che, con portata prelevata nulla, risaliva fino a 7 m sopra il suolo mentre la sua depressione per l’emolumento di una portata totale dei 7 pozzi necessaria per soddisfare la richiesta di 120 l/sec. risultò pari a solo ad un metro sotto il suolo. Nel caso di un prelievo di soli 30 l/sec la pressione si stabilizzava sui 6 metri sopra il suolo il che dava la possibilità, effettivamente poi messa in atto, di rifornire una parte iniziale del comprensorio consorziale direttamente a gravità e cioè senza bisogno di pompaggio poiché la tubazione di derivazione ovviamente dimensionata per la futura portata complessiva necessaria per alimentare tutto il territorio compreso il centro turistico di Bibione, doveva avere un diametro di 50 cm. Il risultato veramente strabiliante, appare nei primi tempi quando il suo limitato percorso copriva solo una piccola parte del territorio, poiché poté funzionare con perdite di carico piccolissime dovute al suo esuberante diametro che in quel caso si dimostrò molto utile.
Le particolarità descritte presentavano notevoli vantaggi anche nei riguardi delle singolari necessità di esercizio ad acquedotto finito. Si é già spiegato come l’utente più importante e cioè il centro turistico di Bibione, aveva una grande difficoltà di esercizio per due motivi determinanti. Prima di tutto si trattava di servire l’utenza più lontana dalle fonti di e per di più un’utenza avente una enorme escursione di portata d’acqua relativamente al periodo estivo in cui era elevatissima per la presenza di 160000 turisti e quella autunno – inverno – primavera una portata molto bassa essendo l’utenza di soli 2500 presenze. La risoluzione di questo problema derivò da un dispositivo che allora nessuno usava e che era quello di variare continuamente la pressione e la portata di esercizio in funzione del cambiamento della richiesta idropotabile. Questo problema ai nostri giorni è di facile risoluzione grazie alla disponibilità di pompe a velocità variabile da zero al massimo di giri al minuto ottenuta da un variatore della frequenza dell’energia elettrica chiamato inverter ed oggi anch’esso comunemente disponibile. Questi meccanismi non esistevano affatto negli anni 70 di progettazione e di costruzione reale ma la buona preparazione dei progettisti risolse il problema cambiando la tecnica abituale. Fu eccezionalmente prevista la costruzione di grosse pompe a corrente continua aventi la caratteristica di poterne modificare la velocità di rotazione semplicemente variando il voltaggio della corrente elettrica che non poteva più essere di tipo alternata ma, come detto, continua. Il fatto provocava alcune difficoltà per la tipologia di corrente che occorreva ricavare da quella alternata normalmente fornita dall’Enel e per la maggiore delicatezza dei motori delle pompe che, essendo motori a corrente continua, erano e muniti di collettori con collegamento elettrico tramite appositi carboni. Tali difficoltà poterono essere eliminate non appena arrivate le nuove apparecchiature ma nel frattempo il servizio , automatizzato tramite un piccolo PC Apple Secondo che allora costituiva prevalentemente un gioco per i giovani, funzionò perfettamente nelle sue diversificate fasi costruttive e di esercizio.
A questo punto risulta facile ed interessante capire come, non appena ultimata la realizzazione dei primi lotti e i primi tratti di condotta a adduttrice diametro 500 mm e restando ancora molto lontani dall’arrivare con essa fino a Bibione ma essendo le fonti completamente costruite come già spiegato, si poté iniziare l’esercizio normale con alimentazione di alcuni comuni della zona nord del territorio consorziale. Da rilevare che il consorzio poté svolgere questa prima fase con un esercizio economicamente attivo in quanto tutti gli impianti funzionavano a gravità senza bisogno di regolazioni o la risoluzione di problemi tecnici di sorta. Ciò consentì la costruzione delle piccole reti di distribuzione di centri abitati , reti che risultarono sempre collegate direttamente alla condotta principale da 500 mm di diametro che funzionava del tutto autonomamente e con una pressione ideale per la distribuzione fino all’interno delle abitazioni degli utenti.
Il sistema andò avanti per oltre una decina d’anni durante i quali i modesti finanziamenti ottenuti consentivano soltanto di continuare nella costruzione di solo alcuni brevi tratti della condotta principale e delle piccole reti di distribuzione collegate direttamente ad essa senza però arrivare al traguardo finale che era costituito dal centro turistico di Bibione.
Da rilevare un altro aspetto importante.
I centri abitati di cui si parla, prima dell’arrivo dell’acquedotto consorziale non avevano affatto l’acqua corrente in casa ma si rifornivano d’acqua potabile , casa per casa, da un pozzo artesiano ricavato bella loro corte e che era di tipologia a risalienza naturale fino al terreno dove era stata costruita una vasca di raccolta in cemento armato da cui attingere per gli usi famigliari e per l’abbeverazione delle bestie della stalla. La vasca svolgeva anche la funzione di frigorifero grazie ad un piccolo vano in cemento armato ricavato nella parte inferiore della vasca, vano mantenuto fresco dall’acqua sempre corrente a sfioro, nella soprastante vasca.
L’arrivo della nuova rete di alimentazione consorziale rappresentò un notevole ed utilissima novità.
A lungo andare il funzionamento a gravità cominciò ad essere insufficiente ed allora si dovette provvedere ad installare presso i pozzi di Savorgnano una prima parte della centrale di sollevamento completa di due piccole pompe da 30 l/sec di portata con le quali si poté ovviare alla espansione del rifornimento idropotabile ad altri piccoli centri abitati facenti parte del Consorzio.
Finalmente con la concessione di un finanziamento cospicuo si poté completare la condotta adduttrice principale ed incominciare ad alimentare Bibione mettendo fuori servizio il sistema di alimentazione prima esistente.
A questo punto del racconto sono da descrivere importanti ed estremamente interessanti particolari dell’esercizio dell’acquedotto consorziale.
La parte essenziale è sicuramente la centrale di sollevamento di Savorgnano che affiancava i pozzi con un funzionamento automatico del tutto particolare essendo regolato, su base informatica, da quel personal computer Apple Secondo e che in realtà era nato come giocattolo per giovani appassionati .
Il principio di base della regolazione era quello di asservire le pompe ad una velocità che doveva del tutto automaticamente adeguarsi alle richieste della rete che a sua volta erano trasmesse al PC da un venturimetro (misuratore di portata) posto subito a valle della centrale. In altri termini la pompa doveva aumentare o diminuire la velocità di rotazione e quindi sia la portata che la pressione a seconda delle indicazioni del venturimetro facendola aumentare quando la portata tendeva a crescere ed a diminuire in caso contrario. Il programma era predisposto in modo che il comando di variazione dovesse essere sempre confermato dal persistere del nuovo dato di portata per un tempo regolabile in funzione dell’esercizio effettivo dell’acquedotto. Questo tipo di regolazione non è affatto facile né assolutamente esente da errori di funzionamento . Bisogna tener presente che le macchine in genere non sono mai intelligenti ad esempio le decisioni prese nell’informatica dipendono esclusivamente dagli algoritmi del programma ma quello che manca è l’interpretazione, la conoscenza delle decisioni prese. Io sono fermamente convinto che nell’esercizio degli acquedotti non si possa basarsi solo su questi principio ma deve esserci la mente dell’uomo che li interpreta e provvede a prendere decisioni anche se poste al di fuori degli algoritmi stessi ma necessarie in caso di anomalie di funzionamento. La riprova di tutto questo è la decisione presa dal sottoscritto che pretese che nel programma fosse aggiunto un secondo metodo di regolazione tanto più semplice e pratico che i tecnici della Marelli autrice dell’impianto non condividevano affatto ma, come vedremo più avanti, che diventò invece il normale metodo di regolazione dell’acquedotto almeno per gli anni che il sottoscritto ebbe modo di controllare. Il metodo da me proposto ed effettivamente aggiunto consisteva nel poter fissare mediante lo schermo del PC una curva giornaliera delle velocità di rotazione delle pompe ora per ora e definita dal personale di esercizio stagione per stagione, in maniera molto semplice e cioè sulla base reale della constatazione statistica di esercizio. In altri termini in questa metodologia il PC leggeva ogni quarto d’ora la velocità reale della pompa e provvedeva a correggere quella reale di rotazione fino ad eguagliarla con quella prefissata nel grafico per quel tempo. Il vocabolo vistosamente ha una ragione ben importante in quanto le pompe installate a Savorgnano essendo pompe di alta portata e prevalenza avevano una caratteristica particolare che era quella che, una volta definita, non la portata ma soltanto la velocità di rotazione, la pompa stessa non manteneva una portata fissa ed invariabile, il che avrebbe potuto essere considerato un metodo troppo rigido e quindi provocare delle differenze tra portata immessa in condotta e consumo reale dell’utenza. In realtà bisogna considerare bene che il comportamento reale delle pompe non è mai fisso inderogabilmente ma possiede la possibilità di variare la portata che in realtà può cambiare continuamente con una regola ben definita e dipendendo dalla curva caratteristica della pompa stessa. In altri termini fissata una certa velocità di rotazione la pompa è libera di aumentare o diminuire la portata in funzione delle caratteristiche del momento ed effettuando contemporaneamente una variazione di portata che può aumentare ma oppure deve diminuire la pressione di pompaggio. Il funzionamento risulta contrario in caso di diminuzione di portata poiché aumenta la pressione.
Questa libertà di funzionamento è molto importante perché risultano possibili sia la diminuzione dei difetti di gestione in quanto la pressione risultante attenua tali difetti essendo di valore contrario. Ad esempio se la portata in arrivo fosse troppo bassa la pompa aumenterebbe da sola la sua portata del momento e nello stesso tempo però diminuisce anche la pressione il che offre il vantaggio di attenuare la richiesta dell’utenza rendendo più stabile il servizio. Quando invece la portata risultasse troppo elevata la pompa provvederebbe automaticamente e completamente da sola a diminuirla perché la rete non la riceve però questa diminuzione provocherebbe un aumento di pressione il quale costituisce proprio una modifica che interviene positivamente con una crescita nella richiesta dell’utenza.
In conclusione tutto questo conferma il buon risultato della regolazione in argomento poiché leggeri errori nelle velocità prestabilite ora per ora garantiscono comunque un esercizio ottimale : l’unico difetto che può risultare è un funzionamento della pompa un po’ fuori rendimento. Per evitarlo è necessario che le velocità imposte ora per ora siano ben definite in base ai risultati gestionali stagione per stagione con particolare riguardo per il funzionamento estivo quando l’arrivo a Bibione di molti turisti impone un funzionamento appropriato che, in realtà, si ottiene inserendo un nuovo grafico dei giri prefissati ora per ora.
Di contro, occorre che io descriva un esperimento compiuto da me stesso per comprovare la pericolosità di disservizio del sistema di regolazione principale del pompaggio. Infatti io stesso alla presenza dei tecnici della Marelli ho eseguito una prova portando allo stremo i difetti di funzionamento provocati dal sistema di regolazione principale. Allo scopo io mi sono portato in corrispondenza di uno scarico della condotta adduttrice principale, essendo il sistema regolato automaticamente secondo le modalità principali le quali, come già spiegato, modificavano la velocità della pompa in funzione della portata richiesta. Io ho esagerato la prova aprendo velocemente uno scarico della condotta principale e quindi fingendo che si trattasse di una richiesta degli utenti eccezionalissima. Trattandosi di un aumento importante ed improvviso, l’automatismo di Savorgnano è intervenuto aumentando la velocità della pompa. Questo fatto ha provocato un forte aumento dell’acqua in uscita dallo scarico aperto per la verifica. Questo nuovo aumento del tutto eccezionale a sua volta è stato rilevato dal sistema di regolazione a Savorgnano che provocò un nuovo aumento della velocità della pompa. Si capisce che stava accadendo un disastro perché era in corso un fenomeno irregolare che si sarebbe ripetuto all’infinito. Ovviamente l’esperimento è stato immediatamente sospeso ma io avevo ottenuto la dimostrazione di quello che eccezionalmente sarebbe potuto accadere. In realtà la regolazione dell’acquedotto del Consorzio Basso Tagliamento, dalle notizie in mio possesso, ha sempre funzionato e forse funziona anche al giorno d’oggi con il sistema pratico che io stesso ho fatto aggiungere e che ha dato un funzionamento pratico e validissimo. Tutto questo mi porta a confermare il mio concetto riguardo l’aspetto pratico degli automatismi, aspetto sempre difficile da tenere sotto controllo.
Occorre precisare che con l’inizio dell’alimentazione di Bibione il Consorzio ha dovuto modificare la consegna a tutti i paesi che prima erano alimentati a gravità dotandoli di una piccola vasca a terra di arrivo dell’acqua della tubazione da 500 mm e di provvedendoli di proprio impianto di sollevamento.
Per dare un’immagine completa della genialità delle strutture di cui si tratta devo ora spiegare come avviene la compensazione giornaliera delle portate del maggiore utente cioè del centro turistico di Bibione.
Per compensazione giornaliera si intende un procedimento che, tramite un grande serbatoio locale costruito a Bibione, si accumula di notte tutta la portata di esubero rispetto ai consumi e che la centrale di Savorgnano può immettere in condotta nelle ore notturne quando gli utenti consumano portate d’acqua molto ridotte. Detta portata eccedente i consumi viene accumulata allo scopo di poterla immettere in rete l’indomani per soddisfare le punte di consumo. Per garantire un buon funzionamento del serbatoio di Bibione viene applicata la regolazione a livelli imposti già spiegata nella parte iniziale .
In questo modo il serbatoio giornaliero , come già scritto, ha solo lo scopo di compensazione giornaliera. D’estate, quando sono presenti molti turisti ed i consumi di acqua potabile sono elevati, esegue regolarmente la compensazione riempiendosi di notte e svuotando in rete nelle ore diurne tutto il suo volume e permettendo ai pozzi di Savorgnano di dare una portata pressoché costante sia di notte essendo necessaria per riempire il serbatoio di Bibione e sia moderata di giorno potendo usufruire anche dell’immissione in rete dell’intero serbatoio.
Il funzionamento ha tutt’altra funzione nelle stagioni autunno-invernali nelle quali, essendo minimi i consumi di Bibione, quasi tutto il volume accumulato in serbatoio viene reimmesso nella condotta principale del diametro di 500 mm con cui la portata immessa risale verso la fonte di Savorgnano ottenendo il vantaggio di effettuare la compensazione di tutti i paesini alimentati nella prima parte del territorio e che sono privi di proprio serbatoio di compensazione giornaliera. Viene quindi dimostrato un’altra funzione importante dovuta all’ottima progettazione generale dell’intero acquedotto del Consorzio Basso Tagliamento la quale garantisce che in tutte le notti, sia estive che invernali, il serbatoio di compensazione giornaliera di Bibione si svuoti e si riempia in tutte le notti sia invernali che estive.
Ultimata la descrizione dell’acquedotto che, ad avviso di chi scrive, potrebbe essere considerato un valido esempio di progettazione e realizzazione di primaria qualità, si passa alla descrizione di un appalto concorso il quale sia per la qualità della soluzione tecnica presentata e sia per lo svolgimento dell’appalto presenta interessantissime curiosità anche se , in realtà,. non è stato affatto preso in considerazione.
PROGETTO PER RENDERE AUTONOMA L’ISOLA D’ELBA CON SODDISFACIMENTO DEL FABBISOGNO IDROPOTABILE
Questo mio intervento che potrebbe essere giudicato con il giudizio più generoso per l’alta qualità della progettazione. per l’impegno che vi ho profuso in vent’anni di attività non continuativa ma comunque molto impegnativa, per l’alta qualità del mio lavoro ed infine per la eccezionalità del problema da risolvere: rendere autonoma l’Isola d’Elba che si trovava e si trova tutt’ora in condizioni veramente precarie dovendo ricorrere al rifornimento di acqua potabile proveniente dalla terraferma.
Negli anni precedenti l’anno 2002 in cui intervenni attivamente, io passavo delle settimane di vacanza all’Isola d’Elba per la sua bellezza e per un clima ideale.
Da tecnico specializzato nel servizio idropotabile io ero impressionato dal fatto che l’albergatore mi spiegasse le frequenti crisi del rifornimento di acqua potabile dovendo in quegli anni e durante il periodo estivo basarsi su l’acqua minerale in bottiglia anche per cuocere la pasta.
Incuriosito incominciai ad informarmi direttamente dalla direzione del servizio idrico locale e dalla numerosa documentazione che riuscii a trovare potei constatare che le piogge che annualmente cadevano sull’isola sarebbero state più che sufficienti per coprire il fabbisogno ma nella realtà non veniva realizzato nulla di tutto questo per delle circostanze particolari dell’ambiente che creava dei problemi di organizzazione cui gli enti interessati non riuscivano a far fronte.
La questione si riduceva, a grandi linee, ad un solo fenomeno di temporizzazione in quanto il volume totale di acqua piovuta durante le stagioni autunno-inverno- primavera rappresentava la gran parte del volume annuo mentre i grandi consumi avvenivano d’estate per la presenza di numerosi turisti. Definito in questi termini il problema risultava univoco perché quando in una zona è presente statisticamente acqua in volume più che sufficiente, l’unica soluzione è quella di una buona utilizzazione di quel volume poiché qualunque altra soluzione risulterebbe non giustificabile per ragioni tecniche ed economiche.
La questione dell’Isola d’Elba avrebbe potuto risolversi razionalmente soltanto con la costruzione di un serbatoio di grandi dimensioni e destinato ad accumulare le grandi portate d’acqua presenti all’inverno onde poterle utilizzare per fronteggiare i consumi estivi. In questo impegno sussisteva un grande inconveniente poiché l’andamento del suolo non consentiva di realizzare un lago artificiale tramite una grande diga di ritenuta con cui, com’era avvenuto in molte altre regioni italiane, il problema poteva trovare una soluzione di sicuro successo. Mancando questa possibilità gli enti interessati avevano provato a percorrere numerose altre strade risultate fallimentari. Tra di queste si annovera l’aumento del prelievo con pozzi dalla falda artesiana con risultato negativo in quanto la normale crisi estiva si ripercuoteva anche sulla falda che risultava ricca d’inverno per la abbondanza d’acqua dovuta alle piogge, ma molto scarsa d’estate.
Un altro intervento fallito miseramente era basato sulla costruzione di ben 21 laghetti atti ad immagazzinare il grande volume invernale necessario. Il fallimento di questa operazione fu dovuto alla mancata tenuta idrica del primo laghetto costruito come esempio degli altri 20. Attualmente sta per essere terminata la costruzione di un grande dissalatore il quale, a giudizio del sottoscritto darà anch’esso risultati negativi se non altro per i costi elevati di produzione dell’acqua potabile non ammissibili in un territorio di per sé così ricco di acqua piovana.
C’era stata una ulteriore progettazione che il sottoscritto aveva giudicato ottima in quanto basata sulla formazione di un bacino sotterraneo in grado di accumulare il necessario volume d’acqua invernale e che si sarebbe derivato dalle catene montuose che si trovavano intorno al costruendo serbatoio.
Il progettato bacino sarebbe stato derivato dal grande materasso alluvionale sito in località Marina di Campo e praticamente sottostante l’aeroporto elbano e sarebbe stato ottenuto dalla costruzione di un lungo diaframma atto ad isolare dal mare il nascente bacino sotterraneo. Questo progetto non è stato preso minimamente in considerazione, mentre avrebbe meritato veramente di essere esaminato con la dovuta competenza.
Constatati i vari tentativi andati a vuoto il sottoscritto nell’anno 2002 ha redatto un progetto che osa definire straordinario per le notevoli caratteristiche di buona risoluzione dei problemi senza arrecare danno alcuno all’ambiente ed inoltre con possibilità di essere costruito per gradi tutti funzionali.
La mia idea è partita dalla attenta considerazione della situazione reale dell’Elba la cui unica modalità di risoluzione del problema idropotabile era quella di ricavare un grande serbatoio che doveva avere le seguenti caratteristiche.
– Non danneggiare il delicato ambiente elbano di tipo insulare e quindi difficilmente collegabile con la terraferma
– Il territorio , totalmente montagnoso, non consentiva la costruzione di grandi bacini artificiali in superficie
– Era necessario ottenere un grande volume di accumulo da riempire d’inverno ed utilizzare per affrontare le grandi punte di consumo estivo
– Doveva potersi costruire per gradi a causa dell’elevato costo non reperibile tutto assieme
– Tenere ben presente che l’area più piovosa dell’Isola è la zona del Monte Capanne il quale con la sua altezza di 1000 m s m attira le nuvole.

Vista prospettica del Monte Capanna con tracciato della galleria-serbatoio in progetto
La soluzione da mè prevista si basa sulla necessità di costruire un serbatoio completamente sotterraneo onde non danneggiare per nulla il territorio con la costruzione di un’opera avente un volume netto di due milioni di mc e quindi molto impattante.
Allo scopo io ho progettato, come soluzione generale fattibile per lotti in in lunghi periodi di tempo, di costruire una galleria lunga 26 chilometri del diametro interno netto di 10 m. ed un volume utile di circa mc 2000000 (due milioni di mc) e che planimetricamente circondava a 360 gradi il monte Capanne ed avente un percorso curvilineo posto ad una quota di 150 metri sul livello del mare. In quel modo il tunnel era in grado di raccogliere l’acqua di tutti i rii che scendono dal pendio e quella di infiltrazione sotterranea ed al tempo di alimentare direttamente a gravità la rete di distribuzione dell’acquedotto.
Una caratteristica importante è la possibilità di essere costruibile per tronchi successivi in modo da seguire il fabbisogno reale e la disponibilità economica.
Per esempio nel periodo attuale quando l’isola continua ad essere è alimentata dalla terraferma tramite la condotta sottomarina, risulterebbe sufficiente costruire una piccola parte di serbatoio sotterraneo (circa un chilometro) in quanto non sussiste ancora la necessità di rendere idraulicamente autonoma l’Elba dalla terraferma e quindi dover accumulare l’intero volume di piogge invernali ma risulta provvisoriamente sufficiente che il nuovo serbatoio – galleria esegua solo la compensazione giornaliera cioè l’accumulo degli esuberi notturni per poi fronteggiare le punte di consumo diurne.
La presentazione del progetto di massima è stata fatta in un convegno tenuto all’hotel Airone presenti autorità e abitanti dell’isola d’Elba. In un primo tempo il progetto sembrava essere accolto molto bene tanto vero che il comune era propenso a fare una delibera per dare incarico ad un tecnico qualificato di eseguire il progetto di un primo lotto avente un importo corrispondente alla cifra che veniva spesa in quell’anno per le bettoline di trasporto acqua potabile fornita dalle navi cisterna. Era evidente la convenienza poiché la costruzione del piccolo tratto di galleria-serbatoio avrebbe eliminato la ripetizione della spesa per tutti gli anni seguenti di trasporto con le navi cisterna.
Un serbatoio sotterraneo presenta molti vantaggi prima di tutto perché costituisce il sistema migliore per conservare acqua al fresco, alla quota di 150 msm con cui si potrebbe alimentare la rete di distribuzione a gravità, il serbatoio sotterraneo, non arreca nessun danno all’ambiente ccc. ecc.
La procedura andò invece per le lunghe e la gestione dell’acquedotto elbano passò ad una società privata la quale preferì adottare le altre soluzioni già citate ed ai giorni nostri sta finendo la costruzione del grande dissalatore.
A nulla valsero i numerosi contrasti da parte di tecnici ed anche di una associazione di privati elbani.
UNA ORIGINALE STRUTTURA IN APPALTO CONCORSO PER LA SISTEMAZIONE DELL’ACQUEDOTTO DI VENEZIA INSULARE
Alcuni anni or sono veniva bandito un appalto concorso per la progettazione e costruzione di alcune opere acquedottistiche per la città di Venezia. Chi scrive queste note ha fatto parte dello staff progettuale di una delle cordate di imprese concorrenti all’assegnazione ed ha personalmente proposto la soluzione di seguito descritta che, accettata e completata nelle varie parti, è stata presentata ufficialmente al concorso.
La progettazione originalmente riguardava la costruzione ex novo di due condotte sub lagunari del diametro di un metro da costruire parallelamente al ponte della Libertà per collegare la terraferma in località S. Giuliano alla piccola isola di S. Secondo dove dovevano sorgere il serbatoio di compenso e la centrale di sollevamento. L’isoletta la si vede bene percorrendo il lungo ponte e osservando a sinistra appena prima di arrivare a Venezia.
Era questa l’opera più importante e difficile da realizzare trattandosi di un serbatoio per acqua potabile della la cui capacità di mc 40.000 totalmente ricavato sotto l’isola di S. Secondo oppure in altro modo proposto dal concorrente in quanto l’appalto concorso aveva proprio lo scopo di vagliare le diversificate soluzioni proposte dai vari concorrenti.
Nel discutere con il mio ingegnere direttore della Società presso la quale lavoravo io affermai immediatamente che non riuscivo a vedere alcuna possibilità di costruire un serbatoio così grande in un ‘isola così minuscola come era quella indicata nel bando e chiamata isola S. Secondo.
A mio avviso, accogliendo anche lo scopo dell’appalto concorso che era quello di trovare una soluzione completamente diversa che consentisse di mantenere intatta l’isoletta collocando di fianco e magari sotto il fondo della laguna la sola centrale di sollevamento.
L’opera, sulla base dell’appalto concorso ed a mio giudizio avrebbe dovuto sorgere interamente al di fuori dell’Isola di S. Secondo ed essere completamente sotterranea perché l’isola era molto piccola e doveva restare tale anche dopo la fine dei lavori. Pensando e ripensando alle possibili soluzioni diversificate del progetto mi fu facile arrivare alla soluzione razionale poiché sarebbe stato sufficiente aumentare il diametro delle due condotte già in appalto e portarle ad un diametro netto di 3,60 m per raggiungere lo scopo di trasformare le due condotte in progetto in un serbatoio della richiesta capacità fermo restando la sua proprietà naturale che era quella del trasporto dell’acqua dalla terraferma a Venezia insulare,
Io tutto entusiasta proposi al mio direttore la soluzione di ricavare il volume di accumulare direttamente dall’aumento di diametro delle due condotte che erano già in progetto ma non lo trovai ben disposto verso tale versione. Io precisai che la soluzione mi pareva ottima fatta salva la necessità di discutere con l’impresa costruttrice già designata perché faceva parte del nostro gruppo di concorrenti all’appalto, per definire le complesse modalità di costruzione. Detto fatto comunicammo all’impresa spiegando i vantaggi e richiedendo di studiare la soluzione. Io andai avanti con le previsioni e ventilai la possibilità di costruire, in presenza dell’acqua della laguna, ognuna delle due lunghe colonne tubolari in un cantiere posto in terraferma a bordo della laguna salvo spingere la grande tubazione man mano che veniva costruita. dopo aver fatto lo scavo della trincea di posa sempre in presenza dell’acqua della laguna. L’impresa si dimostrò consenziente e si premurò di studiare una soluzione costruttiva veramente straordinaria che prevedeva un cantiere di terraferma con pavimentazione a quota più bassa del fondo condotta in modo da costruire la tubazione con diverse squadre che lavoravano in contemporanea mentre la tubazione stessa veniva spinta in laguna ininterrottamente avendo eseguito in precedenza la trincea di scavo e la posa dei cavalletti di appoggio. La colonna che avanzava in laguna doveva avere un peso leggermente superiore alla spinta di galleggiamento in modo da poterla mantenere in quota con pontili montati su galleggianti e muniti di argano di sollevamento allo scopo di posizionarla sugli appoggi di fondo scavo alla fine della sua costruzione. Nel cantiere di terraferma le diverse squadre di specialisti nell’ordine saldavano le lamiere curve in acciaio che costituivano la tubazione in acciaio vera e propria. La seconda squadra provvedeva alla verniciatura protettiva interna ed esterna, la terza realizzava l’intercapedine con un apposito strato in plastica molto permeabile, la quarta era composta da carpentieri che facevano la cassaforma con cui realizzare uno strato di 35 cm di cemento armato necessario per rinforzare ed appesantire la tubazione in modo che non galleggiasse da vuota d’acqua ma fosse con un peso appena superiore alla spinta di galleggiamento e quindi facilmente spostabile con gli argani i dei pontili galleggianti. Seguivano i ferraioli per la posa e delle barre di ferro da c.a. Infine l’ultima squadra faceva il getto del calcestruzzo. Come detto il lavoro veniva eseguito sulla barra in progressivo avanzamento il laguna per essere poi abbassata e fissata sui cavalletti già eseguiti. Il cantiere verrebbe ultimato con il rinterro con lo stesso fango di scavo. La procedura, raccontata brevissimamente, è risultata eccezionalmente valida anche se il mio nuovo ingegnere direttore continuava a nutrire dei dubbi sull’intera organizzazione di cantiere definita dall’impresa.
Nonostante tutto, la nostra progettazione e la stesura dell’offerta proseguirono sulla traccia prospettata. Venne fissato il giorno per una riunione di tutte le ditte associate dove affrontare una nutrita discussione definitiva che precedeva la presentazione dell’offerta. Anche io ero presente in quanto accompagnai l’ingegnere direttore della nostra società.
L’inizio della discussione doveva consistere nella illustrazione del progetto da parte della nostra società che ne era il progettista ufficiale senonché l’ingegnere mio direttore (da poco tempo) fu improvvisamente assalito da un gran mal di pancia e dovette ritirarsi con una fortissima diarrea che poi si trasformò in una mezz’ora di dolori lancinanti. Prima di assentarsi l’ingegnere asserì che la presentazione potevo iniziarla io che ero perfettamente al corrente della questione mentre egli sarebbe tornato quanto prima. Io invece dovetti procedere alla presentazione dell’intero progetto passando subito dopo la parola al titolare dell’impresa costruttrice poiché il nostro ingegnere tardava a rientrare. Il titolare si allungò in maniera superba ad illustrare nei suoi punti più delicati di tutte le meraviglie studiate nel dettaglio della costruzione. Tutti i presenti si dichiararono molto soddisfatti del progetto in tutte le sue varie parti ed fu allora che rientrò nella sala anche il mio direttore il quale non sapeva nulla delle spiegazioni e del consenso generale che era stato effettivamente manifestato da tutti I presenti ma egli volle lo stesso poter dire due parole di completamento della spiegazione del progetto che egli sapeva avevo presentato io ai presenti ma del cui contenuto egli non era affatto al corrente. Malauguratamente il mio direttore iniziò con l’esperire dubbi sul progetto ponendo l’interrogativo se fosse stato il caso di rivedere certi punti e subito fece l’estro di iniziare un esempio. Io notai che il titolare dell‘impresa, che aveva illustrato le modalità costruttive in maniera sublime senza che il mio direttore non lo avesse sentito a causa della sua prorogata assenza, risultava seccato delle osservazioni del mio direttore. L’imprenditore ad un certo punto prese in mano la lunga stecca da disegno che era posata sulla tavola anch’essa in legno e molto lunga, la alzò in alto e quindi la fece sbattere fortemente sul tavolo con un fracasso notevole cui fecero seguito delle parole adirate: ingegnere lei non porta qui nessuno esempio ! Noi abbiamo sentito spiegare bene il vostro progetto, io mi sono dilungato nel descrivere tutte le modalità costruttive e tutti i presenti si sono felicitati dichiarandosi entusiasti del lavoro nel suo insieme ed ora lei non deve qui presentare alcun esempio perché la cosa é ormai decisa : noi presentiamo il progetto così come già deciso da tutti i presenti,
Il mio direttore rimase interdetto e non aggiunse parola. Venne scritto un verbale che tutti sottoscrissero.
Devo ammettere che da quel giorno i miei rapporti con il direttore rimasero sempre molto freddi ed a mé, con molto dispiacere, non restò ché presentare. dopo poco tempo, le dimissioni ed andare in pensione.
Quel progetto fu presentato e, dalle indiscrezioni che trapelarono, la nostra soluzione aveva fatto colpo per l’idea di base ed anche per quella esecutiva già descritta in tutti i particolari e per i costi che risultavano i migliori.
L’affidamento dei lavori sembrava procedere nel migliore dei modi quando accaddero dei fatti gravi e scandalosi riguardanti anche l lavori pubblici italiani in quanto nacque quel procedimento chiamato “mani pulite” e che mise in luce una serie di scandali nei quali personaggi importanti, tra i quali figuravano anche alcuni che facevano parte della associazione che aveva presentato il progetto descritto. La cosa bloccò molti lavori che erano all’inizio e tra di essi anche il nostro progetto che venne totalmente bloccato e le opere non furono mai costruite.
Il fatto interessante finisce per consistere soltanto sulla ottima soluzione progettata in tutti i suoi particolari ed in maniera ottimale e, del tutto teoricamente, in grado di apportare un notevolissimo e funzionale progresso che, come sarà dimostrato col passare degli anni, verrà a mancare perché nella realtà si procederà alle modifiche dell’assetto acquedottistico in maniera competentemente diversa. Riguardo alla bontà della soluzione effettivamente realizzata io sarei molto dubbioso ma preferisco non entrare affatto nel merito, restando solo addolorato per lo smacco subito di non veder realizzata, per motivi posti fuori della competenza di noi progettisti, un’opera che era in buona parte farina del mio sacco.
IL PROGETTO DELL’ACQUEDOTTO DI PORDENONE CON UNA IMPOSTAZIONE DEL TUTTO ORIGINALE RIGOROSAMENTE ADEGUATA AL TERRITORIO
Negli anni 70 l’autore di queste note ha collaborato alla progettazione, costruzione ex novo e messa in servizio attivo dell’acquedotto della città di Pordenone appena diventata capoluogo di provincia e precedentemente alimentata d’acqua potabile casa per casa tramite pozzi artesiani privati. Pur trattandosi di un rifornimento idropotabile le cui caratteristiche contrastano con i concetti di base aggiornati all’epoca attuale, ritengo ugualmente di descriverlo in quanto costituisce un valido esempio di acquedotto allora concepito in funzione del territorio da servire e perfettamente congruente con la tecnica allora in uso.
Innanzitutto è da ricordare una delle regole che alla citata epoca di redazione del progetto era considerata essenziale nella costituzione degli acquedotti e cioè la presenza di una o più vasche di carico della rete di distribuzione.
Oltre a questo uno dei principi da rispettare era quello di garantire una pressione piezometrica sempre parallela ad un suolo come quello del capoluogo di Pordenone caratterizzato da una notevole pendenza longitudinale della sua parte nord e da un’ampia area pianeggiante o con poca pendenza di quella posta a sud.
In terzo luogo era giocoforza razionalizzare la captazione e sollevamento dell’acqua avendo fissato, per motivi di sicurezza, la costruzione di due opere di presa e sollevamento differenziate ed ubicate rispettivamente in località Comina dove la falda, assai ricca, si trovava ad una profondità di circa 50 metri sotto il suolo con risalienza limitata ad una ventina di metri sotto il terreno ed in località Torre dove l’acqua della falda, anch’essa posta a 50 metri sotto il suolo, era artesiana ma con una risalienza naturale fin sopra il terreno.

Il serbatoio pensile di Comina
L’opera di presa di Comina, realizzata a nord cioè nella parte superiore del territorio, comprende un pozzo a raggiera tipo Fehlmann con una canna verticale in cemento armato del diametro di tre metri, profonda 55 m e con due raggiere orizzontali poste nella falda ghiaiosa a circa 50 m di profondità. Entro il pozzo sono installate le pompe di sollevamento ad asse verticale con motore elettrico posto in alto e linea d’asse lunga una trentina di metri che aziona il corpo pompa immerso in falda a quota 30 m sotto il suolo. Le pompe immettono direttamente l’acqua a 50 sopra il piano campagna nell’adiacente serbatoio pensile da 3000 mc da cui si diparte la rete di distribuzione. Questa soluzione, se da una parte avrebbe assicurato un buon rendimento elettromeccanico di pompaggio che risulta limitato ad una singola breve condotta di mandata, dall’altra faceva nascere il grosso problema della compensazione delle portate in quanto il locale serbatoio pensile, pur rappresentando nel suo genere un’opera eccezionalmente capiente, non avrebbe potuto che effettuare una modesta compensazione nel mentre la sua posizione sopraelevata si prestava bene a costituire una utilissima capacità di riserva a tutela dei disservizi dell’intero territorio pordenonese. La creazione a terra di un capace serbatoio di compensazione giornaliera delle portate è stata scartata a priori in quanto avrebbe comportato un doppio pompaggio con evidenti maggiori costi di costruzione e di esercizio. D’altro canto non si poteva pensare che, non avendo a disposizione una sufficiente capacità di accumulo, si dovesse far lavorare il pozzo con portate continuamente variabili durante le 24 ore della giornata tipo, essendo invece consigliato un prelievo il più possibile costante e privo di picchi che rappresenta la condizione ideale di sfruttamento della falda artesiana e di sollevamento a mezzo pompe. Anche in questa occasione un attento esame della situazione locale ha messo in luce delle possibilità veramente interessanti. In dettaglio la risalienza della falda sud (zona Torre) che assicurava l’immissione naturale dell’acqua, cioè senza bisogno di pompe, in un grande serbatoio seminterrato, ha consigliato di concentrarvi il volume di compenso di tutta l’utenza dell’intera città di Pordenone e quindi anche quello dell’area nord (Comina ) nel mentre una particolare costituzione della rete di distribuzione assicurava, come vedremo, per l’impianto di Comina una portata pressoché costante durante le 24 ore della giornata ovviando quindi alla nominata carenza di invaso. Rimaneva compito dell’altro impianto (Torre), immettere in rete, sfruttando in questo caso la sua notevole capacità del serbatoio, una portata variabilissima durante le 24 ore della giornata e quindi atta a coprire l’intera escursione della richiesta idrica di tutta l’utenza pordenonese

Nella figura allegata figurano schematicamente l’andamento del suolo, i due impianti di captazione e sollevamento ed infine la rete di distribuzione caratterizzata da un’area centrale indicata nel disegno come “area urbana ad alimentazione alterna” in quanto fornita alternativamente dall’uno o dall’altro dei due impianti di produzione descritti. Infatti la rete, pur essendo di tipo unitario per tutta l’area urbana, risulta suddivisa in due parti differenziate per tipo di alimentazione e per dimensioni delle tubazioni stradali da una linea di confine che presenta la caratteristica di regredire verso monte e quindi ridurre notevolmente l’area servita da Comina man mano che aumenta la richiesta idrica e di contro crescere verso valle al verificarsi di basse portate. In pratica durante la giornata, quando sono richiesti grandi quantitativi idrici, la gran parte del capoluogo di Pordenone è alimentato dall’impianto inferiore di Torre nel mentre durante la notte è l’altro impianto ubicato a Comina a rifornire la quasi totalità dell’utenza. Allo scopo le condotte della rete bassa hanno diametri maggiorati ed esplicano quindi un’azione stabilizzatrice della linea piezometrica nel mentre quelle della zona nord alimentata da Comina sono di diametro relativamente piccolo e, a causa della notevole perdita di carico che ne deriva, non possono far fronte ai consumi più rilevanti che, come già detto, sono in gran parte soddisfatti da Torre. Si è potuti giungere a tale risultato progettuale per approssimazioni successive tramite una lunga serie di calcoli di verifica teorica dell’intera rete di distribuzione che hanno portato anche all’altro interessante risultato di una buona equivalenza tra i volumi che giornalmente i due impianti producono e immettono in rete e dovuta al fatto che per Torre è determinante soprattutto la portata diurna mentre per Comina è il volume prodotto di notte a consentire detta equiparazione, fermo restando che eventuali discrepanze possono essere via via corrette modificando la regolazione delle valvole di cui si tratta nel seguente capoverso. Ovviamente il tutto rappresentava soltanto la soluzione teorica del problema nel mentre ben diverse potevano essere le condizioni reali di esercizio e ben diversi i risultati della gestione effettiva degli impianti. Si è quindi deciso di dare all’acquedotto l’elasticità di funzionamento necessaria perché potesse adeguarsi ad ogni evenienza anche diversa da quelle ipotizzate, maggiorando alcune condotte della zona nord e munendole di valvole che consentano una regolazione fine della pressione. Il risultato finale è stato quello di una rete avente le seguenti caratteristiche generali. Una doppia alimentazione che dia la massima sicurezza di esercizio e costituita da:
-Un impianto di produzione a nord (Comina) atto a produrre e sollevare una portata abbastanza costante nelle 24 ore della giornata tipo e per un volume giornaliero all’incirca corrispondente alla metà della richiesta totale giornaliera. Il serbatoio pensile da 3000 mc rimane a guardia dell’intero territorio posto ai suoi piedi costituendo una riserva pronta ad entrare in rete in caso di disservizi vari;
-Un impianto di produzione a sud composto da pozzi a risalienza naturale che alimentano un serbatoio di compensazione seminterrato e di grande capacità atto ad immagazzinare di notte ed a restituire di giorno tutta l’acqua necessaria per coprire le punte di consumo di tutta la città, effettuando la compensazione giornaliera atta a garantire che da ambedue le fonti possa –
Una rete di distribuzione con una piezometrica sempre parallela al suolo e con una pressione sul suolo corretta. La possibilità di regolare l’intervento dei due impianti di produzione e sollevamento tramite manovra delle valvole.
Alla data attuale chi scrive queste note non è al corrente della situazione corrente dell’acquedotto di Pordenone essendo la descrizione riportata relativa all’epoca della sua costruzione. Come tale rappresenta un valido esempio di progettazione e realizzazione di un complesso acquedottistico importante ed di cui si ritiene utile conservare la documentazione.
UNA RIVOLUZIONE FONDAMENTALE NELL’ESERCIZIO DELL’ACQUEDOTTO DI SACILE
L’alimentazione idropotabile della città di Sacile, da decenni affidata alla società dalla quale dipendevo anch’io, godeva fin dall’origine di una situazione del tutto favorevole essendo alimentata da tre pozzi posti in una ricca falda artesiana posta ad una distanza di circa sette chilometri dall’impianto di sollevamento ubicato alla periferia cittadina essendo dotato anche di un capace serbatoio di compensazione delle portate giornaliere. La fortuna, cui facevo cenno, è il fattore in base al quale i tre pozzi erano risalienti in superficie, essendo posti in area sopraelevata rispetto l’abitato di Sacile. la portata prodotta era in grado di arrivare nel serbatoio citato direttamente a gravità.
Al momento di inizio del mio lavoro presso la società di gestione la situazione così favorevole era appena cambiata poiché da un lato il calo di portata della falda artesiana e dall’altra il notevole aumento del fabbisogno dell’utenza, avevano reso la portata recapitata a gravità nettamente insufficiente e per risolvere da sola il problema e tutti i tre pozzi erano stati , da poco tempo, muniti di pompa sommersa collegata elettricamente con la centrale di sollevamento dove un dispositivo a galleggiante metteva in funzione i tre pozzi in modo da riportare il serbatoio ai suoi livelli massimi . In altri termini il serbatoio era regolato con il sistema “a livello massimo”. e quindi riducendo l’efficacia del funzionamento a gravità.
Un attento esame del funzionamento degli impianti ha denunciato una notevole anomalia. In pratica il sistema di regolazione a livello massimo del serbatoio provocava una sostanziale perdita di acqua potabile che aveva luogo durante la notte in quanto essendo il serbatoio spesso riempito dal funzionamento delle pompe sommerse dei pozzi, tutta la portata in arrivo a gravità a partire dal citato momento di riempimento serale del serbatoio per arrivare fino circa alle ore 7 del mattino di inizio del prelievo, tutta l’acqua che arrivava in serbatoio a gravità, veniva sfiorata.
Non appena accertata questa deleteria evenienza il sottoscritto ha subito pensato alle modalità da seguire per razionalizzare il funzionamento eseguendo il progetto di sistemazione che è consistito in due provvedimenti particolari il primo dei quali aveva lo scopo di regolarizzare la compensazione giornaliera delle portate in arrivo dai pozzi., la seconda di migliorare la pressione di consegna dell’acqua all’utenza divenuta anch’essa insufficiente per gli aumentati consumi dell’utenza.
Ancora una volta la modifica fondamentale è stata quella di modifica della regolazione del funzionamento. Il primo intervento che risultò necessario poiché con un lavoro poco costoso si sarebbe evitato lo sfioro notturno con perdita di notevoli volumi d’acqua preziosa fu quello di modificare la regolazione dell’adduzione trasformandola da quella “al massimo livello” a quella “a livelli preimpostati”. Allo scopo fu sufficiente inserire una scheda elettronica con tastiera in cui poter fissare i livelli da avere ora per ora un livello razionale in serbatoio e che garantisse il riempimento notturno del serbatoio stesso nonché lo svuotamento giornaliero in funzione dei consumi ora per ora

Il grafico giornaliero dei livelli da imporre al serbatoio
L’opera più costosa da realizzare fu il cambiamento totale della pressione di rete in quanto fu necessario inserire nella stessa scheda, di cui si è detto, il sistema di alimentazione della rete che prima avveniva per alimentazione diretta dal serbatoio sopraelevato alto solo 22 metri e quindi insufficiente per una buona alimentazione dell’utenza. In pratica si dovette aggiungere anche una serie di nuove pompe ed inoltre modificare i collegamenti idraulici della rete per farla funzionare a pressione variabile. Infatti venne deciso che alla notte la rete dovesse continuare ad essere alimentata direttamente a gravità dal serbatoio la cui modesta altezza risultava comunque sufficiente allo scopo ma alla mattina, non appena la portata totale consumata raggiungesse un certo valore da impostare in base all’esperienza, il serbatoio veniva riempito e chiuso per essere lasciato di riserva per tutta la giornata, mentre la rete veniva alimentata in diretta dalle nuove pompe fino a quando la portata totale non avesse a discendere al di sotto di quel limite prefissato.
Quel funzionamento una volta messo a punto in tutti i dati descritti diede risultati ottimi per u una ventina d’anni e cioè per tutti quelli passati da me in quel lavoro.
IL PROGETTO DI SISTEMAZIONE DELL’ACQUEDOTTO DI PORTOGRUARO
Il sottoscritto, avendo partecipato assiduamente nella progettazione e direzione lavori della sistemazione dell’acquedotto, il giorno 30 nov 2008 venne incaricato di partecipare alla festa di anniversario centenario della nascita dell’acquedotto. Il contenuto del mio discorso consistette nel descrivere come l’acquedotto originario nei suoi primi anni era costituito da un piccolo impianto di sollevamento sito nella frazione di Portovecchio e da una condotta lunga 4 Km con la quale si alimentava una sola fontana pubblica sita davanti al Municipio. L’originalità del servizio era data dal fatto che il sollevamento era attuato senza utilizzazione di energia elettrica completamente non presente in zona ed invece con funzionamento autonomo dato da una ruota a pale meccaniche che faceva ruotare ininterrottamente ed autonomamente un piccola pompa di sollevamento.

Il manifesto dell’anniversario dell’acquedotto di Portogruaro

L’inaugurazione del primo acquedotto di Portogruaro avvenuta nel 1908

La vasca di compensazione giornaliera di Portovecchio con annessa sala pompe
Nell’anno 2000 la mia società venne incaricata di eseguire un nuovo progetto per la costruzione di un serbatoio seminterrato di compensazione giornaliera e della posa di un nuovo impianto di sollevamento.
Eseguiti tali lavori l’acquedotto di Portogruaro si trovò in situazione molto simile a quella di Sacile avendo un serbatoio di compensazione giornaliera automatizzato con regolazione a livelli imposti ora per ora nelle 24 ore della giornata. Oltre a questo, anche il funzionamento, in maniera analoga a Sacile, venne regolato con doppia funzione. Durante la notte la rete era alimentata dal serbatoio sopraelevato che con i suoi 20 metri di altezza era in grado di alimentare la scarsa utenza notturna consentendo pertanto un grande risparmio di corrente elettrica per le pompe . Durante le ore diurne il serbatoio veniva riempito e quindi escluso dal servizio fungeva soltanto da riserva in caso di disservizi del pompaggio e, non appena sorpassata la portata fissata come limite , la rete veniva alimentata dalle pompe più potenti aventi portata e pressione maggiori.
Per ulteriori chiarimenti si rimanda alla descrizione dell’acquedotto di Sacile il cui esercizio è analogo a quello in argomento.
IN PENSIONE
Arrivato ai sessanta anni e soprattutto venendo a mancare una buona collaborazione con il mio nuovo direttore il quale dimostrava qualcosa di simile al dispiacere nel vedere che nella scelta delle soluzioni io arrivavo per primo ma per la verità io non ho mai capito il ma era chiara la mancanza di una fiducia reciproca in tutto il lavoro che compivamo insieme, nonostante il mio desiderio fosse stato quello di restare ancora qualche anno continuando quel lavoro che mi piaceva tanto, fu giocoforza per me fare domanda di andare in pensione e, avendo tutte le caratteristiche per ottenerlo, io dal 1992 sono un pensionato.
Da quel giorno non posso affermare di aver abbandonato l’acquedottistica, al contrario, mi diedi da fare per continuare a seguirla in tutti i modi possibili.
Come primo impegno mi dedicai a descrivere tutta l’esperienza fatta con particolare riguardo per tutto ciò che era da considerarsi progresso tecnico ed economico rispetto agli usi e costumi dei servizi idrici esistenti ed anche di quanto insegnato all’università e quello che risulta nella letteratura e nelle riviste tecniche. In pratica mi sono sforzato di comprendervi tutto quello che in decenni di esperienza avevo fatto allegando disegni, grafici e tabelle fino alla pubblicazione del libro “ACQUEDOTTI – REALTA’ E FUTURO” che poi ho messo in vendita diretta da Amazon con un prezzo tanto basso da essere ridicolo. Io lo ho fatto credendo di stimolarne l’acquisto da parte di tecnici. Invece la verità deve essere contraria e , molto probabilmente, un manuale che costa pochissimo, è considerato un libro che non vale niente. Quei pochi che lo hanno comprato hanno pubblicato delle referenze veramente lusinghiere il che mi ha fatto molto piacere.

Il mio manuale contenente tutte le mie esperienze fatte in tema di acquedotti
Io mi sono interessato a scrivere articoli su riviste tecniche e soprattutto a fare dei piccoli interventi, tra i quali un esempio valido, è stato quello di interessarmi alla soluzione del problema idropotabile dell’Isola d’Elba di cui si può leggere nell’apposito capitolo: La cosa non è ancora finita perché tra breve entrerà in servizio il nuovo impianto di desalinizzazione sul quale io ho pubblicato numerose osservazioni e non mancherò di intervenire qualora si verificasse quello che ho già previsto e segnalato in anteprima.
Oltre a questo ho aperto due siti il primo dei quali “www.acquedotti.it” mi è stato rubato in quanto non riesco più ad aprirlo. L’altro “www.altratecnica.it” tratta in generale la tecnica con particolare riguardo per gli acquedotti.
IL MIO INTEVENTO CONTRO LA DISTRETTUALIZZAZIONE
Un’attività che ho svolto a lungo senza ottenere risultati di sorta è stata la mia contrarietà per la distrettualizzazione.
Si deve constatare come i gestori di acquedotti in generale non seguono affatto il controllo dell’esercizio tramite la verifica teorica del funzionamento della rete interconnessa anche se ai nostri giorni esistono degli ottimi programmi per PC che consentono il calcolo idraulico di strutture acquedottistiche considerate nella loro interezza comprendendo nello schema di calcolo pompe, valvole di riduzione, serbatoi e tutte le strutture sia tubolari sia meccaniche di qualsiasi tipo per cui sarebbe possibile conoscere i difetti ed innanzitutto la presenza e la quantità di perdita d’acqua e pertanto provvedere alla sua eliminazione razionale o almeno riduzione . Già il fatto che per conoscere la propria rete di distribuzione il gestore debba usare la decimazione delle interconnessioni di rete la dice lunga sulla impreparazione degli addetti.
IL risultato è la diffusione a macchia d’olio in tutti gli acquedotto della distrettualizzazione ovverossia la dannosissima suddivisione delle reti in tante piccole sottoreti ognuna alimentata da una sola condotta la quale consente finalmente di conoscere i dati di funzionamento e quindi di provvedere alla operazione di sistemazione delle perdite di ogni distretto.
Ottenuto questo brillante risultato, il gestore si sente soddisfatto nell’avere i serbatoi sempre pien ma non pensa ai gravi danni che ha provocato sacrificando l’interconnessione che precedentemente caratterizzava la rete con tutti i vantaggi che ne derivano.

La rete dell’acquedotto di Padova distrettualizzata. E’ visibile la vera distruzione dell’interconnessione di rete
La cosa peggiore è la fine della razionalizzazione vera degli acquedotti ormai immobilizzati dalla nuova frammentazione.
Io mi sono battuto in tutti I modi contro questo sistema interpellando una moltitudine di studiosi i quali mi rispondevano che il problema era realmente vero ma che ormai non si poteva far nulla. In conclusione la gran parte degli acquedotti è ricoperta da una lapide tombale che li farà restare per lunghi anni in una condizione che definire pessima è dir poco perché sono ormai destinati a restare strutture di vecchio tipo con mille difetti anche se hanno perdite contenute, dai gestori considerate il toccasana. Sarà inutile con la nuova tecnica di cui si detto effettuare progetti di unificazione e miglioramento di reti destinate solo a peggiorare con il passare degli anni e le regioni che sono senza acqua potabile resteranno così per lunghissimi periodi.
SINTESI DELLA TECNICA PERSONALE
Tutto il dispiegamento , pur fatto in breve , della tecnica che mi appartiene, ha dato un’idea di una vita svolta con il piacere di operare in un campo che mi entusiasma in tutte le sue varie forme. Una volta giunto ad una avanzata età risulta logico guardare indietro e riesaminarne i vari aspetti e porsi delle domande sul senso di tutto questo fare per anni ed anni.
A mio avviso gli aspetti positivi sono due .
IL primo è senza dubbio la soddisfazione di aver passato un’intera vista in maniera esaltante essendosi applicato sempre in tutte le attività sia di gioco, di divertimento, di lavoro, di racconto, di disegno oppure di scrittura ,di essersi sempre occupato di cose piacevoli, di grande soddisfazione, di grande interesse per me.
Il secondo aspetto molto importante e comprovato dai risultati nettamente positivi effettivamente ottenuti, è la convinzione di aver sempre creato con la proprio intelligenza e con la volontà, delle opere o delle azioni che fanno parte di quel continuo progresso della vita umana che è sempre derivato da interventi di diverso tipo ma assolutamente della stessa natura, degli stessi concetti fondamentali, di cui si parla in tutte le varie parti del testo.
Dall’altro lato esiste un aspetto negativo che è quello di aver sottratto del tempo che avrei dovuto dedicare alla mia famiglia e soprattutto a mia moglie la quale ha dovuto sopperire personalmente alla esecuzione, oltre agli impegni usuali delle compagne dki vita anche all”esecuzione di molti impegni che avrei dovuto attuare io stesso.
CONCLUSIONI
Io sottoscritto, giunto a questo punto, vorrei concludere in un modo singolare e, pur avendo, con la massima vigoria, pronunciato tutte le parole, nessuna esclusa e che conoscevo per farlo intendere maniera superlativa, ritengo ora che tale mia vigoria possa venir superata da un fatto strano, paradossale come lo è senza dubbio l’aver Impiegato la mia tecnica anche in attività che esulano dalla sua caratteristica fondamentale in maniera tale da non poter considerarla possibile.
Ebbene io nel miei ultimi anni sono arrivato al culmine quando ho usato la tecnica per invadere un nuovo campo di attività e cioè per disegnare dei ritratti che molti hanno definito, sia pur in maniera errata, delle vere opere d’arte.
Infatti io ho disegnato un centinaio di ritratti che un tecnico non sarebbe mai stato capace di fare e, se io lo ho potuto eccezionalmente compiere, é stato soltanto perché anche in quel settore così estraneo alla mia natura mi sono comportato esclusivamente da tecnico quale mi reputo di essere stato sempre .
La spiegazione è presto fatta.
Io ho adoperato esattamente lo stessa tecnica che usavo nel rilevare e riportare in carta i terreni sui quali si dovevano costruire strutture come le dighe o gallerie ed altre componenti di impianti idroelettrici, ma recentemente le ho usate anche per rilevare e disegnare delle fotografie di volti umani ed in maniera perfettamente analoga a quella descritta per i rilievi del terreno.

Esempio di un mio ritratto disegnato con la tecnica di rilievo per coordinate cartesiane dei punti principali
Adesso, giunto veramente alla fine del mio testo, devo riportare anche una conclusione molto importante perché riguarda il futuro degli acquedotti quale me la figuro io stesso, forse perché deformata dalla mia convivenza con gli acquedotti ma senz’altro ritenuta doverosa, come segue.
Risaltano in maniera evidentissima i grandi progressi che si stanno ottenendo negli studi della moderna acquedottistica, studi molto sviluppati e sviluppabili nell’immediato futuro grazie anche al prodigioso progresso dell’informatica ora giunta a quella vera rivoluzione dell’intelligenza artificiale cui farà seguito anche la rivoluzione dei concetti base degli acquedotti. Quello che ne risulterà quanto prima sarà la concezione teorica di nuovi acquedotti destinati a risolvere le gravi deficienze che riguardano soprattutto il sud d’Italia dove risaltano anomalie veramente gravi del rifornimento idropotabile.
Le soluzioni che verranno a galla saranno rivoluzionarie e le previsioni che appariranno saranno, secondo il sottoscritto, basate sulla totale informatizzazione del sistema italiano in una unica rete estesa a tutto il territorio nazionale, ben interconnessa per la quale non esisteranno più differenziazioni in nessuna parte d’Italia rispetto a alle altre parti non essendo umanamente possibile che debbano sussistere.
Io personalmente temo che anche questi studi, come del resto sta accadendo attualmente con la distrettualizzazione, siano affetti da gravi mancanze perché, sempre secondo il mio giudizio, questi grandi studi mancheranno inevitabilmente di una caratteristica costante.
Quella vera rivoluzione, pur se necessaria negli acquedotti italiani, non può riuscire bene se non partecipano alle nuove determinazioni e definizioni dettagliate, anche degli studiosi che abbiano vissuto e che continuino a vivere giorno per giorno l’avventura reale degli acquedotti. Senza questa esperienza le avanzatissime soluzioni elaborate restando in ufficio, con estrema conoscenza dei rinnovati studi teorici ma solo da quelli, non riusciranno mai a trovare soluzioni veramente e praticamente efficaci con il pericolo di restare pochissimo utilizzate nella realtà. Il tutto è comprovato dalla più volte descritta distrettualizzazione che oggi perversa.
THE END