IL GUARDIACACCIA ED IL CAPRIOLO SUICIDA

NUOVA EDIZIONE

INTRODUZIONE

Lo spunto di base di questo racconto è dato dalla inveterata abitudine di un capriolo che, trovandosi in una situazione disperata, arriva perfino al punto estremo di scegliere il suicidio pur di evitare quegli atroci patimenti che una atavica sequenza ha stampato sulla sua memoria. Il fenomeno è descritto molto bene nel libro “Il suicidio del capriolo” di Giancarlo Ferron.

Ogni suicidio, sia di persona o di animale, è motivo di grande tristezza ma in questo caso ne deriva ben altro : dapprima esso indica la sicura strada per compiere, impuniti, una grave malefatta ma alla fine offre il modo certo per scoprirne gli autori e di fare giustizia.

FAGHER UN PAESINO DI MONTAGNA

Teatro della storia è un paesino di alta montagna chiamato Fagher, che nel dialetto locale significa faggio. Il nome forse deriva dall’importanza sempre rivestita in zona dai boschi di faggio, come ottima legna da riscaldamento durante le fredde invernate passate sotto alte coltri di neve, a temperature gelide.

Siamo negli anni ‘40, nel primo dopoguerra, e l’attività locale è basata principalmente sull’agricoltura e gli allevamenti di bestiame, soprattutto in malghe dove gli ampi pascoli consentono di alimentare un grande numero di animali da latte, dai quali ricavare per lo più burro e formaggi molto ricercati per la loro buona qualità.

Un’altra fiorente attività è legata al legno, grazie ai vasti boschi di resinose e di alberi ad alto fusto di essenze forti, atti al riscaldamento domestico, il cui taglio alternativo per ampie aree boschive di piante adulte, fornisce buon reddito nella vendita dei tronchi e anche, sopratutto per le pregiate resinose, nelle lavorazioni di segherie locali che ricavano delle consistenti partite di tavole grezze, il legno pronto per le lavorazioni industriali di pianura. Si tratta di un’attività qualificata ma, dal punto di vista economico, modesta a causa dei lunghi periodi invernali di clima freddo, quando l’attività si riduce alla sola manutenzione delle attrezzature e dei locali e non frutta alcun beneficio economico.

La normale alimentazione dei valligiani ha luogo utilizzando prevalentemente i prodotti locali, essendo molto diffusa l’agricoltura e la coltura degli ortaggi e anche la raccolta nei boschi di frutti di buonissima qualità, mentre dalla caccia derivano ottime carni. Altri prodotti alimentari vengono acquistati nei negozi del paese.

La composizione dell’abitato si basa generalmente su vecchie casette unifamiliari, il vero boom di costruzione delle nuove case è appena cominciato e sono presenti solo alcune ville di recentissima realizzazione, appartenenti alle famiglie più abbienti come quelle del medico, del farmacista e del veterinario. Spicca, per il suo lusso sfrenato, quella del macellaio, Giovanni, un uomo che ama sfoggiare le sue automobili di lusso.

La mentalità comune nel paesino è ancora improntata al risparmio, derivato dal recente periodo bellico di assoluta povertà in paesi piccoli come quello della nostra storia. Il sogno, che nei decenni successivi troverà piena attuazione, è quello di poter erigere nuove casette che sostituiscano quelle esistenti, generalmente prive delle minime comodità.

La mancanza più sentita è quella dell’impianto idrico domestico, assai raro nelle abitazioni di Fagher. Un episodio a riguardo renderà bene la situazione reale.

Per ovviare al disagio di non potersi fare a casa una doccia calda, il locale parroco aveva da poco ricavato nello scantinato della canonica quattro docce che funzionavano con il materiale abbondante in zona, cioè la legna da ardere. La gioventù vi si poteva ritrovare tutti i sabati, non solo per le pulizie personali, ma per stare in compagnia a raccontarsi gli avvenimenti della loro bella età. Da rilevare un difetto di comportamento della gente comune e di costituzione simile alla durissima roccia delle locali montagne, essendo ossessionata della mania del risparmio da attuare sempre, ovunque e in maniera tanto puntuale da indurre anche il parroco ad un risparmio cosí all’osso della legna usata nelle docce, da offrire normalmente dell’acqua appena tiepida. Quando, in casi eccezionali, accadeva di abbondare nel combustibile, la gioia diventava così grande che lungo la strada del ritorno i ragazzi non mancavano di esplodere con gli amici : ho fatto una doccia bellissima, figuratevi che l’acqua era calda!

PERSONAGGI

La popolazione di Fagher si componeva delle classiche famiglie paesane che vivono essenzialmente di reddito individuale, procurato dall’agricoltura e dalla lavorazione del legno, essendo quasi assente la categoria dei lavoratori a stipendio fisso.

Tra tutti si distingueva Menico, il guardiacaccia, che svolgeva attenta attività di controllo e vigilanza sul territorio e, oltre a un compito squisitamente didattico di educazione della cittadinanza al rispetto dell’ambiente, della fauna selvatica e della normativa di riferimento, segnalando alle autorità competenti le eventuali malattie riscontrate nella vegetazione in modo che si provvedesse sistematicamente all’abbattimento dei capi malati, egli svolgeva anche la rigorosa verifica dei comportamenti generali praticando una puntuale contestazione di eventuali reati, con imposizione di ammende pecuniarie per violazione delle leggi vigenti a tutela del patrimonio naturale di flora, fauna ed anche paesaggio. Egli aveva molto a cuore quest’ultimo fattore essendo ben conscio della bellezza e della ricchezza di un elemento cosi importante come la meravigliosa visione delle montagne. che d’estate rifulgivano di un vero splendore mentre d’inverno, totalmente ricoperte dalla neve , per Menico risultavano ancora più preziose e belle .

Il guardiacaccia, a causa del suo comportamento rigoroso, era malvisto dai cittadini che gli contestavano un’eccessiva severità nei loro confronti mentre, nel loro intendimento, avrebbe potuto chiudere un occhio di fronte a certe piccole infrazioni dei regolamenti, infrazioni che, in riferimento soprattutto alla caccia di animali selvatici, costituivano per i valligiani medesimi un’ambita risorsa alimentare.

Non avendo alcuna possibilità di compiere studi specifici inerenti alla sua grande passione per la montagna e alll’ambientante naturale nel quale era vissuto, da giovane si era dovuto accontentare della scuola media e di seguire il corso di ragioneria, la sola scuola superiore alle scuole medie situata nel capoluogo, distante solo una ventina di chilometri da casa che egli raggiungeva facilmente e da cui rincasava con l’autobus in giornata. Durante l’ultimo biennio di scuola, lo stesso autobus veniva utilizzato anche da una bella ragazza un po’ più giovane di lui, che lo aveva colpito fin dal primo sguardo. Menico era un bel ragazzo molto aperto e destava interesse per la passione per la natura, così come per una loquacità schietta, doti queste che non mancarono di cementare sempre più l’amicizia tra i due.

Finita la scuola, Menico poté finalmente consacrarsi alla passione per l’ambiente, frequentando, anche in città lontane, brevi corsi di perfezionamento che lo arricchirono molto nella sua materia e quando si presentò l’occasione per concorrere all’assegnazione di un posto di guardiacaccia proprio nella sua zona di residenza, poté parteciparvi, arrivare tra i più preparati ed essere assunto, essendo anche ottimo conoscitore della montagna locale. La frequentazione della ragazza divenne sempre più intensa, per la grande attrazione tra i due e per il grande piacere di stare insieme, soprattutto durante le belle gite sulle montagne che egli amava tanto e di cui le illustrava con entusiasmo le attrattive. La ragazza, dal canto suo, amava sognare un futuro in famiglia con due e più figli. La sua passione era però diversa da quella di Menico: amava gli studi classici e desiderava diventare maestra, in modo da poter insegnare e nello stesso tempo accudire alla famiglia e ai figli.

Passati alcuni anni si sposarono e andarono ad abitare in una casetta tutta loro, a Fagher. Lei, che nel frattempo aveva terminato gli studi ed era diventata maestra, come aveva sognato, riuscì anche ad ottenere un posto in una scuola sita un poco lontano da casa che raggiungeva con una piccola automobile con la possibilità, in capo a qualche anno, di chiedere il trasferimento e tornare a Fagher. Intanto sperava nell’arrivo di un bambino che però tardava a farsi annunciare.

Giunse presto il trasferimento alla scuola elementare di Fagher e gli sposi trascorsero alcuni anni di vera felicità, sia pur turbati dalla gravidanza che non arrivava. Per la verità, cominciarono a venire a galla anche alcuni dissidi, dapprima minimi, ma con l’andare del tempo sempre più pressanti, relativi al tenore di vita. In dettaglio, Menico era sempre interessato alla sua montagna e a tutto quello che vi si riferiva, tanto da occupare intensamente tutta la giornata e in definitiva tutto il suo tempo. La moglie considerava quell’attaccamento una vera e propria ossessione, che impediva alla famiglia di vivere in modi diversi dove si curasse la cultura assistendo a spettacoli teatrali, partecipando a convegni sulla storia che a lei piaceva tanto. Lei faticava sempre di più a giustigficare l’occupazione quasi maniacale nel lavoro di guardiacaccia di suo marito, lavoro minuzioso che lo portava ad indire riunioni fuori orario per la salvaguardia dei boschi, per l’organizzazione del turismo in montagna, per l’incremento dell’attività inerente i boschi di conifere, ecc. ecc.

Come entrava dentro casa, Menico si vedeva sempre impegnato in discussioni su quelle montagne, quei boschi, quegli animali selvatici, nel mentre i ragionamenti di lei sulla cultura, sulle ferie con istruttive visite a città d’arte erano continuamente lasciati da parte.

C’era a Fagher una officina meccanica dove la moglie di Menico portava la sua vetturetta a far riparare e dove trattava spesso con il figlio del titolare, di qualche anno più giovane di lei.

Il giovanotto aiutava il padre nei periodi liberi dallo studio, che pure lo appassionava. Con lui la signora parlava molto volentieri di arte, di storia, di teatro, anzi si recava sovente in anticipo per ritirare la vettura, allo scopo di scambiare due parole finalmente dedicate alle materie che prediligeva. Era molto bella e la frequentazione da innocente diventò eccessiva, a volte includeva piccoli percorsi con la piccola automobile, in teoria per verificarne il funzionamento, in realtà per godere di una compagnia sempre più piacevole. Erano brevi soste al bar per sorbire frettolosamente un caffè e trattenersi insieme qualche minuto in più. Ciò che piaceva ad entrambi, era la discussione sulle materie classiche della storia, del teatro, del nascente cinema, dei grandi passi che si stavano profilando nella tecnica. Addirittura il ragazzo le confessò che il suo sogno segreto era di andare a studiare in Inghilterra, per la qualità degli studi che vi si potevano fare e per impadronirsi della lingua, che a suo dire avrebbe aperto la strada alla sua speranza segreta di lavorare un giorno in America, perché erano ben noti i grandi passi nella tecnica di quel paese. Questo entusiasmo piaceva molto alla signora, che restava incantata ad ascoltarlo, veramente affascinata, anche se le pesavano i pur pochi anni di differenza di età tra di loro. Gli incontri cominciavano a infittirsi e nello stesso tempo generavano rimpianti in ambedue, perché erano profondamente onesti e mai avrebbero trasceso i limiti della correttezza, neppure con le minime manifestazioni di un affetto forse desiderato ma mai, nemmeno in ragione di dubbio, espresso formalmente.

D’altra parte, la famiglia Bettega era la classica famiglia benestante dei piccoli paesi dove il lavoro dell’officina meccanica di riparazione delle vetture e rivendita di quelle usate, consentiva un tenore di vita agiato. Il figlio pertanto era un bravo ragazzo, dedito allo studio e senza grilli per la testa.

Quando cominciarono a serpeggiare in paese i primi pettegolezzi sulla eccessiva amicizia tra lui e la donna, sottolineati da svariati commenti che accennavano fuggevolmente anche alla differenza di età, Bettega padre, un classico montanaro tutto d’un pezzo, chiamò a colloquio il ragazzo al quale disse che la cosa doveva assolutamente finire lì, sul nascere, e gli comunicò che, visto e considerato il suo desiderio di andare a studiare in Inghilterra, doveva immediatamente trasferirsi a Londra, sicuro che in questo modo si sarebbe risolto il problema.

Il giorno della partenza, i suoi saluti alla moglie di Menico furono esageratamente freddi, dando a intendere a entrambi quanto dolore albergasse in quei cuori.

Altro personaggio caratteristico in paese era Giovanni, il macellaio. L’immagine che lo potrebbe qualificare in breve, inclusi anche tutti i suoi famigliari, è la modestia, tanto esagerata che si poteva perfino ritenere falsa. A suo dire, la macelleria non poteva diventare, come già la bottega del barbiere, il luogo dove i clienti, in attesa del loro turno, prendessero l’abitudine di mettere in piazza gli scarsi argomenti che un paesino così modesto poteva offrire, per andarli a chiudere nel vicino bar, consumando un caffè al tavolino; tutto ciò per il semplice motivo che il macellaio cercava di stroncare sul nascere le confidenze, invocando la moralità che deve contraddistinguere i veri montanari come loro, moralità che bisognava posasse sempre su fatti concreti, evitando in assoluto i pettegolezzi che egli non tollerava nel suo negozio. In macelleria, in sostanza, si doveva venire soltanto a comperare le carni e altri generi di consumo, prendendo esempio dal macellaio in persona, che mai si perdeva in chiacchiere e badava soltanto di fare bene e sollecitamente il proprio lavoro. Quello che sosteneva con maggior puntiglio, era la necessità di attendere seriamente e attivamente alla esecuzione dei compiti che a ogni montanaro venivano assegnati, semplicemente in virtù del fatto di essere nato e vissuto in montagna.

Il comportamento del macellaio contrastava in modo stridente con la sua casa bellissima, dotata di personale per ogni settore di attività, da quello relativo alla macelleria, alla cura della favolosa abitazione, del giardino lussureggiante e zeppo di piante ornamentali, fino alle vetture di cui era un vero appassionato e che cambiava di continuo, aggiornandosi in modo ossessivo con le ultime produzioni, e che teneva in gran numero nel suo garage, insieme a diversi camioncini e furgoni i quali, più che servire veramente al lavoro di macellaio, soddisfacevano la sua passione per i motori di qualunque genere.

L’ultimo personaggio è Carlo, un montanaro vero, con una forza fisica e un coraggio fantastici.

Rocciatore spericolato, lavoratore instancabile dei campi e del bosco, coltivava però alcuni concetti di base troppo rudi. Prima di tutto era un bracconiere indefesso. Per lui, a un abitante della dura montagna, spetta tutto quello che la natura può dare. La cacciagione, molto praticata, doveva continuare quasi per una questione di principio, specialmente la caccia proibita, dato che la selvaggina migliore è proprio quella catturata fuori dal periodo fissato dalle leggi dello Stato e senza alcuna licenza, che egli considerava soltanto un furto di denaro comminato alla povera gente che vive dei prodotti della montagna. Di legna da ardere per riscaldarsi d’inverno ci si rifornisce dove stanno i faggi migliori. Basta tagliare un po’ qua e un po’ di là nei ricchi boschi di proprietà del Comune, quindi anche suoi e della sua famiglia. Il taglio andava fatto di nascosto, in modo che nessuno potesse accorgersene, per brevi interventi svolti perlopiù nelle giornate festive o di sera. Questo era compensato da una pesante attività lavorativa di operaio tuttofare, che soddisfaceva, con ottimi risultati, le richieste che gli venivano rivolte.

Il tutto era promosso da un’intelligenza e da una prontezza di riflessi incredibili. Tanto per fare un esempio, una volta, in automobile con un amico, stava percorrendo a bassa velocità una stradina di montagna che costeggiava un ruscello, quando chiese di fermare l’auto perché aveva adocchiato una trota nelle acque. Ora, viene da chiedersi come può una persona vedere un pesce in una situazione simile. Un altro episodio, che ben rappresenta la personalità di Carlo, si era verificato nel corso di un sopralluogo a una stretta valle rocciosa, in compagnia di un geometra. L’andata in discesa per una ripidissima parete di roccia, con l’aiuto di corde da arrampicata, non presentò problemi. Invece al ritorno, mentre Carlo in un baleno arrivò in cima al tratto di salita in cordata, il tecnico invece stava incontrando serie difficoltà e soprattutto non riusciva a vincere l’ultima rampa quasi verticale . Ebbene, Carlo, con la sua forza prodigiosa, inginocchiatosi in cima e vista la grande difficoltà in cui si dibatteva il geometra, tanto grave da fargli minacciare che si sarebbe lasciato cadere nel precipizio, lo prese per i capelli, che il giovane portava sempre molto, molto lunghi e, quasi sollevandolo di peso, lo fece arrivare in alto. Il geometra ebbe modo di dire che nessun dolore gli aveva fatto lo strappo dei capelli, al contrario, lo aveva rallegrato molto il vedere Carlo che quasi miracolosamente lo faceva nascere di nuovo, sollevandolo di peso con la sola forza del suo braccio.

Ecco, Carlo era questo: una forza prodigiosa e un intuito velocissimo in un corpo da bracconiere di qualità eccezionale. Ma la cosa più vera e più strana è che Carlo di fatto è una persona onesta e corretta, e le trasgressioni che di continuo progetta nella sua mente, gli appartengono in virtù dell’enorme lavoro che compie ogni giorno e per quella legge naturale che reputa superiore a ogni vincolo umano, a ogni regola inventata dall’uomo e per ciò stesso falsa.

UN AVVENIMENTO STRAORDINARIO

La costruzione della diga di Fagher

In questo ambito di vita semplice e relativamente povera, accadde un avvenimento straordinario : una società di produzione e distribuzione di energia elettrica decise di costruire proprio vicino al paese di Fagher una diga, essendo parte fondamentale nel progetto di un grande impianto idroelettrico esteso anche al di là dei confini comunali.

Bisogna rilevare che in quegli anni e in paesi come Fagher, l’attività edilizia non esisteva quasi per nulla. Non si ricostruivano strade, né ponti o altre opere pubbliche. Anche l’edilizia privata languiva miseramente, la mentalità generale era ancora troppo presa dai problemi del dopoguerra, quando la popolazione mancava di tutto, perfino delle derrate alimentari necessarie alla sussistenza. L’arrivo improvviso, in un ambiente del genere, di un insieme di grandi progetti e di opere come la costruzione di un impianto idroelettrico, riempì la popolazione intera della fondata speranza di poter finalmente soddisfare tanti sogni cullati da sempre, che nell’ordine prevedevano per tutti i paesani, la costruzione di una casetta d’abitazione, poter effettuare, vacanze estive al mare ed inoltre far frequentare ai giovani le scuole superiori oltre alle elementari. Era ben chiaro nella mente dei valligiani che l’avvio delle grandi opere avrebbe spinto anche l’attività delle piccole imprese edilizie locali, per l’esecuzione di piccole opere accessorie o per la semplice manutenzione degli impianti meccanici piccoli e grandi necessari all’esecuzione della diga. Oltre a questo era ben noto che i grandi lavori sono sempre preceduti da una serie di impegni preparatori, primi tra tutti i rilievi topografici del territorio interessato, l’acquisto di tutte le aree che servono per le colossali opere e la messa in opera di punti trigonometrici (o di altri punti di cui si spiegherà più avanti).

Si deve precisare come, ai tempi di questa storia, non esistessero affatto le possibilità dei nostri giorni, è cioé la capacità di calcolo partendo dai dati dei satelliti, di usufruire di elaborati programmi computerizzati ed anche delle splendide strumentazioni topografiche contemporanee. Da allora, il posizionamento sul terreno di qualsiasi tracciato è diventato più facile ed assolutamente preciso. Ma qui parliamo degli ultimi anni ‘40, quando, per posizionare con grande esattezza le opere dell’impianto idroelettrico, bisognava creare localmente una apposita rete topografica chiamata rete di triangolazione, che era costituita da una serie di grandi triangoli affiancati tra di loro e materializzati sul territorio tramite punti trigonometrici posti ai vertici. Caratteristica imprescindibile di ogni punto trigonometrico era la sua visibilità, come minimo dagli altri due vertici dello stesso triangolo. A tale scopo, nella progettazione della rete si aveva cura di posizionare tali punti sulle maggiori alture o comunque in zone prive di ostacoli quali edifici, alberi o dossi del terreno che ne impedissero tale visibilità.

Per rendersi conto della precisione necessaria a questo lavoro, basterà considerare le lunghe gallerie destinate al trasporto delle acque del singolo impianto idroelettrico, che venivano realizzate a partire da scavi in sotterraneo, iniziando da due opposte estremità di un tunnel; pertanto il perfetto allineamento planimetrico ed altimetrico dei tronconi contrapposti doveva assicurare la coincidenza dei fronti di scavo nel punto culminante del percorso. Devo aggiungere che il momento dell’abbattimento dell’ultimo diaframma separante le testate che avanzavano in direzioni contrapposte, veniva calorosamente festeggiato, perché comprovava la perfezione del lavoro di scavo, eseguito sulla base di tracciati compiuti con le modalità ‘casalinghe di cui riferisco.

Con la tecnologia moderna si esegue la costruzione di gallerie identiche per mezzo di enormi frese automatiche che avanzano autonomamente nel sottosuolo, comandate e controllate da sistemi automatici posti a grande distanza, in comodi uffici.

Per rendere evidente il progresso raggiunto, si segnala che una delle grandi difficoltà un tempo incontrata nella costruzione delle gallerie, come a Fagher, era costituita dalla presenza di acqua di falda nei terreni soprastanti i lavori; acqua che si infiltrava nello scavo e determinava difficili problemi sia nella costruzione del manufatto, sia nella tenuta della roccia sottoposta a un carico maggiore. Nei casi più tragici, si è anche verificato il cedimento delle armature in legno di sostegno alla volta, con totale riempimento improvviso e per di decine di metri in galleria, con materiale ghiaioso che in qualche caso ha provocato la morte degli operai presenti, sommersi da sabbie e ghiaie miste ad acqua, precipitate dall’alto.

Con i moderni mezzi di scavo e rivestimento delle gallerie, le enormi frese comandate da computer, in assenza quasi completa di personale all’interno della galleria, hanno la possibilità di immettere nel fronte di scavo acqua in pressione che impedisce qualunque intrusione di liquido esterno, a tutela dai temutissimi pericoli di franamento.

Si è detto della rete trigonometrica anni ‘40, tanto complessa per diversi aspetti, da apparire incredibile al presente; ma la sua storia riveste qualche spunto curioso e interessante.

Esempio eclatante, quello della misura delle distanze da un vertice all’altro dei grandi triangoli, che oggi potrebbe essere eseguita semplicemente puntando un raggio laser. L’unica determinazione che allora si poteva fare con la massima precisione, era soltanto quella dell’apertura angolare al vertice dei lati dei triangoli, anche se di dimensioni molto ampie. La precisione della misurazione era data dalla ripetizione continua dei rilievi, almeno una dozzina di volte per ciascun angolo con gli ottimi strumenti disponibili, scegliendo alterne condizioni di tempo meteorologico e con modalità di misura diversificate. L’angolo da utilizzare era definito dalla media aritmetica dei valori letti, che dovevano essere al minimo in numero di dodici e, per maggiore precisione, escludendo da tale novero tutte le letture che si discostassero troppo dalla media. Una volta terminati i rilievi delle aperture angolari al vertice dei triangoli di rete, restava da affrontare il problema di definizione della lunghezza dei lati dei triangoli medesimi che, come già detto, non si poteva determinare con una misurazione in diretta. Ma per il calcolo di tutta la rete sarebbe bastato conoscere un solo lato di un solo triangolo (lato (che assume il nome di base di tutta la triangolazione), oppure di due basi, quando si volesse oltre al calcolo delle coordinate cartesiane di tutti i trigonometrici, effettuare anche la verifica della precisione del lavoro. Ebbene, vista la grandissima importanza che assume la misura della lunghezza della base e visto e considerato che, come dicevamo, non esisteva allora alcun metodo di misurazione diretta delle lunghezze, si sceglieva come base un terreno pianeggiante, della lunghezza totale di circa un chilometro, che veniva sempre definita con misure angolari, ma questa volta suddividendola in piccoli tratti di circa trenta metri la cui estensione veniva poi misurata usando una stadia orizzontale in invar di grande precisione e lunga due metri esatti, che forniva la lunghezza precisa in funzione della misura dell’angolo al vertice in quanto, come già detto, l’unica misura che si poteva effettuare con grande precisione era quella angolare. In conclusione anche la misura della lunghezza della base veniva ottenuta tramite misure angolari esatte. La somma di tutte le tratte, ognuna lunga circa trenta metri, dava la misura effettiva della base che, introdotta nei calcoli, permetteva a tutta la triangolazione di calcolare le lunghezze dei lati mancanti fino a raggiungimento della determinazione esatta delle coordinate cartesiane di tutti i vertici, cioè dei punti trigonometrici.

Nel nostro caso, accadde che la conformazione reale del territorio non sempre permettesse di trovare posizioni adatte per piazzarvi i punti trigonometrici; talvolta la visione reciproca era impedita dalla presenza di alti boschi che costituivano una insuperabile barriera senza soluzione di continuità. La decisione che fu necessario prendere fu quindi quella di richiedere e ottenere dal competente ufficio forestale, l’autorizzazione ad aprire strette corsie rettilinee nei boschi, tramite il taglio di lunghe file di alberi ad alto fusto. Vedremo più avanti come una sola di queste strette corsie aperta in mezzo ai boschi di abeti costituisca il luogo determinante per lo svolgimento della storia e per tale motivo sarà spesso specificamente nominata.

L’INIZIO DEI LAVORI DI COSTRUZIONE DELLA DIGA

Passa circa un anno speso in progettazione e finalmente hanno inizio i lavori di costruzione della diga.

Al paese di Fagher arrivò l’impresa appaltatrice dei lavori, con operai e mezzi d’opera che apportarono un miglioramento economico notevole alla vita di paese. Tanti valligiani vennero assunti direttamente dall’impresa e furono in grado quindi di disporre di un proprio stipendio, mentre l’attività preesistente si arricchiva di servizi come negozi, alberghi e piccole pensioni, affittacamere che davano in affitto abitazioni diversificate alle famiglie delle maestranze e della direzione lavori, composte rispettivamente da un migliaio di operai e da una ventina di impiegati adibiti ad attività di direzione.

Il beneficio economico risultò evidente nell’incremento del volume degli affari di tutti. Per esempio, la piccola officina Bettega, che provvedeva in regime ordinario alle riparazioni delle poche vetture presenti in zona, si vide assegnare l’incarico della manutenzione di automezzi di ogni tipo, impiegati nei lavori. Lo stesso fenomeno interessò piccoli negozi che dovettero ingrandirsi per fronteggiare nuove richieste. Da segnalare il caso specifico della locale macelleria che, da tempo poteva godere di un notevole giro di affari, come si evinceva dall’elevato tenore di vita del titolare, dalla sua splendida villa d’abitazione e pure dalle automobili di lusso che amava collezionare , fu oggetto di immediato ampliamento e ornata dai nuovi arredi nel locale vendite, cui venne affiancato un secondo spazio per la lavorazione e la conservazione delle carni.

Non si fecero attendere altre piacevoli occupazioni quali cinema, sale da ballo, rivendite di libri e di giornali e qualche ristorante.

L’arrivo dell’impresa che aveva l’importante incarico di costruire la diga, fu festeggiato con una bella cena sociale iniziata fin dal tardo pomeriggio per dar spazio alle spiegazioni ed alle discussioni sui programmi in atto, inoltre con lo scopo di farsi conoscere e allo stesso tempo di entrare al meglio nelle grazie del paese. Per essere più consoni all’ambiente, la cena fu a base di un cibo importante: la carne di capriolo. Parteciparono le autorità ed i maggiorenti del comune, ivi compresi il guardiacaccia Menico, il macellaio Giovanni, il titolare Bettega della omonima officina meccanica di riparazioni e in genere tutte le persone che rivestivano un ruolo di importanza nella vita locale, con la presenza anche del direttore dell’impresa che si era assunto l’incarico di eseguire le opere sotterranee, come la trivellazione di sondaggio della roccia, l’iniezione di cemento e sostanze di rinforzo, l’impermeabilizzazione della roccia, eccetera.

Durante e dopo la cena, ci si intrattenne a lungo sui problemi locali. In tale frangente, il guardiacaccia Menico illustrò l’importanza dell’ambiente naturale, ribadendo l’attenzione da egli posta nella sua conservazione, con particolare riguardo alla fauna che egli sapeva essere tanto amata e per questo doveva essere anche rispettata.

Il macellaio si presentò come rappresentante, virtuale, di tutta la cittadinanza di Fagher, quindi esordì magnificando l’occasione unica di una vera rivoluzione, poiché i nuovi grandi lavori avrebbero portato a tutti un benessere economico da investire poi per migliorare e addirittura imbastire nuove attività in tutti i campi, dal turistico in primo luogo, a quello dell’istruzione per i giovani, alla lavorazione del legno, all’agricoltura e ai prodotti caseari. In poche parole, Giovanni invitò i presenti ad attivarsi per il progresso immediato e futuro del paese, ribadendo che l’esecuzione delle grandi opere era un’occasione da non perdere. Per quanto riguardava sé stesso, si impegnò da subito ad ampliare la sua attività con nuovi locali, attrezzati di tutto punto per la lavorazione, la conservazione e la vendita di carni pregiate e squisite. Arrivò a parlare della passione ormai tramontata per la caccia al capriolo e all’ottima carne che un tempo ne derivava.

L’uditorio si mostrò davvero attento alle modalità di costruzione della diga, illustrate dal direttore dell’impresa. Innanzitutto venne spiegato che la sua ubicazione era stabilita in prossimità dell’imponente parete della montagna che dominava il panorama di Fagher per due motivi. il primo determinante era l’andamento del terreno naturale, che oltre a presentare una marcata strettoia della vallata che si prestava ottimamente all’ubicazione dello sbarramento atto alla creazione di un bacino artificiale ampio, fornendo il destro alla creazione un bellissimo lago posto a piede dell’altissima parete rocciosa che avrebbe dato lustro al paese, nel contempo avrebbe dato il via, con il suo sfruttamento, alla produzione di notevoli quantitativi di energia elettrica che, come noto, costituiva una delle necessità fondamentali per il rilancio industriale italiano del dopoguerra. Il secondo motivo verteva sulla presenza di una prominenza del monte, cioè di una vera e propria collina interamente composta di roccia, adiacente alla parete, collina che, opportunamente scavata, avrebbe fornito le ghiaie e le sabbie necessarie alla confezione del calcestruzzo.

Molto interessante anche il resoconto delle modalità esecutive adottate..

Le parole del direttore a questo punto riuscirono ad entusiasmare i presenti poiché costituirono né più ne meno che una straordinaria favola derivata da un’idea geniale dei progettisti della grande opera di cui si discute volta alla risoluzione del problema inerente l’approvvigionamento degli enormi volumi di ghiaie e sabbie necessari per la confezione del corpo diga. Allo scopo sarebbero esistiti diversificati modi come la raccolta della ghiaie e sabbie dal greto di un fiume, soluzione che non appariva assolutamente fattibile per lo stravolgimento idraulico che sarebbe stato provocato al corso fiume. Un’altra soluzione poteva essere quella di aprire un cava in roccia sul fianco della montagna ma anche questa presentava grandi inconvenienti come il danno a tutto il versante della montagna stessa provocato da quella ferita enorme cui andavano aggiunti il costo ed il disagio provocato da un continuo via vai di autotreni destinati al trasporto del materiale fino al cantiere. La soluzione scelta aveva invece molti pregi dovuti alla vicinanza della cava di roccia con il cantiere, tanto è vero che gli spezzoni di roccia provocati con l’esplosivo, precipitavano da soli nel sottostante cantiere. Da rilevare anche le modalità scelte che poterono, come già detto, essere considerate geniali. In dettaglio si era già ultimato lo scavo di un pozzo in roccia che dalla cima di quella collina arrivava verticalmente alla sottostante corta galleria, anch’essa già scavata. Il programma di lavoro prevedeva che lo scavo della sommità della collina avesse luogo in modo da formare un vero e proprio cratere a forma di cono rovesciato, destinato ad ampliarsi sempre di più, man mano che aumentava il fabbisogno di inerti; intanto gli spezzoni di roccia fatti brillare delle mine, sarebbero precipitati da soli entro il pozzo (posto al vertice del cono rovesciato), per cadere a gravità nella sottostante galleria ed essere colà raccolti e trasportati in successione nei vicini impianti di frantumazione, vagliatura e betonaggio per impastare il calcestruzzo. La procedura di ampliamento del cratere di scavo con le mine, che sarebbe proseguita per tutta la durata dei lavori, avrebbe comportato la totale demolizione della collina, al posto della quale sarebbe sorto un ampio pianoro circolare, a disposizione della comunità locale che poteva ricavarvi un giardino, oppure utilizzarlo a qualunque scopo per impianti sportivi o per l’apertura di un mercato ovale o di qualunque altra attività. Nella maniera descritta si sarebbero evitato ogni forma di trasporto su strada di enormi quantitativi di materiale inerte e quindi senza aggravamenti del locale traffico stradale e con evidenti economie di spesa.

Il racconto di tutta la procedura che avrebbe portato pian piano alla demolizione della collina, sembrò impressionare in maniera particolare il guardiacaccia Menico, tanto da fargli abbandonare l’abituale correttezza e l’abito signorile e farlo montare su tutte le furie. I presenti finirono per giustificare l’inusitato atteggiamento di Menico con il dispiacere che provava per lo stravolgimento dell’ambiente naturale e per la sparizione della collina, alla quale evidentemente teneva in modo del tutto particolare.

Belle le foto della grande gru, detta Derrick, che aveva due lunghe braccia, una verticale, l’altra reclinabile, già piazzata in alto, sopra una delle spalle di roccia della diga ed atta, con la sua variabile inclinazione e con la sua rotazione planimetrica, a raggiungere in ogni punto lo spazio di lavoro per portarvi il calcestruzzo e qualsiasi attrezzo e mezzo di lavoro. Il tecnico della gru-Derrick spiegò pure che in cantiere esisteva un grande telaio pavimentato, tutto in legno, contornato da una robusta ringhiera di protezione, il quale, sollevato dalla gru, diventava una platea mobile in grado di volare per portare i tecnici in prossimità delle pareti di roccia e dei paramenti della edificanda diga, per poter verificare da presso la situazione dei lavori. Precisava il tecnico che quando si partecipava a quei sopralluoghi aerei, sembrava veramente di volare dentro un silenzioso elicottero.

A sua volta il direttore dell’altra impresa, quella destinata alla esecuzione di sondaggi e iniezioni di cemento nel sottosuolo, rivelò un dettaglio che nessun ospite conosceva. Infatti il lavoro principale che avrebbe eseguito la sua ditta era la formazione di un diaframma di impermeabilizzazione delle spalle e del fondo diga, avente una profondità di circa duecento metri, che, in pratica, costituiva un effettivo prolungamento sotterraneo della diga, ottenuto per mezzo del consolidamento della roccia in situ, atto a garantire la tenuta idrica delle pareti di roccia sulle quali la diga stessa posava. Egli precisava che, a diga ultimata e funzionante, la sua ditta avrebbe provveduto a colorare le acque del lago artificiale formato dallo sbarramento con una polvere di colore verde intenso, nota come fluorescina, che in caso di perdite del lago attraverso le fessure della roccia rimaste aperte nonostante le molte iniezioni di cemento eseguite, avrebbero finito per tingere i ruscelli a valle. In tal caso si sarebbe dovuto iniettare altro cemento nel sottosuolo fino a ottenere la perfetta tenuta idrica delle opere.

A cena conclusa, Menico fu nuovamente invitato dal suo vicino, che in realtà era suo cugino Antonio, a calmarsi, perché aveva fatto una brutta impressione su tutti, con le poche parole irose dette a proposito della collina. Menico ribatté puntando il dito su un particolare importante, sosteneva che la collina nei fatti era, almeno in parte, di sua proprietà e che gli era stata estorta con un trucco per venderla alla società di costruzione della diga. Si trattava di un altro argomento infelice, che egli non riusciva a tollerare per il modo usato nei suoi riguardi e non solo, anche nei riguardi di tanti proprietari dei terreni rocciosi che allora non avevano che scarso valore venale ma, come ormai era a tutti noto, erano destinati a salire di prezzo. Antonio lo pregò di precisare di cosa si trattava più in dettaglio, ma il guardiacaccia non disse una parola di più.

Di fatto, la notizia della totale distruzione della collina allo scopo di ricavare ghiaie e sabbie di costruzione della diga, provocò un vero trauma nel guardiacaccia, dovuto a due distinte motivazioni. In primo luogo, l’offesa al suo profondo amore per la montagna in genere e per quella del proprio paese in particolare, che veniva sottoposta a una mutilazione, a suo dire assolutamente inaccettabile. In secondo luogo, per il danno economico personale che lo addolorava, non tanto per l’ammontare della cifra che, a suo avviso e sia pure in maniera legale, gli veniva sottratta, ma più ancora per l’affronto fatto ai suoi antenati, che in un tempo immemore si erano procacciati quelle proprietà con grandi sacrifici. Il guardiacaccia non riuscì a superare il disagio interiore che lo aveva assalito, tanto da decidere di agire direttamente.

Organizzò delle riunioni, spiegando che la demolizione di una parte notevole del fronte montagna, costituito dalla collina rocciosa, avrebbe determinato una modifica sostanziale e intollerabile del panorama e pensò di costituire un comitato il cui scopo sarebbe stato quello di opporsi in tutti modi allo scavo della collina.

La popolazione del paese si divise in due fronti, il primo contrario alla demolizione della collina. Altri invece favorevoli ai lavori. Questi, convinti che l’azione del comitato avrebbe comportato ostacoli alla immediata costruzione della diga e alla partenza dei grandi lavori, vi si opposero, portando sul piatto della bilancia i notevoli benefici che il paese tutto si attendeva di lì a poco.

Così il comitato di Menico tardava a costituirsi, i lavori dell’impresa invece procedevano spediti. Finita l’installazione degli impianti di produzione dell’inerte e di confezionatura del calcestruzzo e messo in piedi il laboratorio prove materiali, ebbe inizio la costruzione vera e propria della diga con il cantiere al completo e il paese di Fagher godette presto, come previsto, di un elevato benessere.

Opportuno precisare come il citato laboratorio prove fosse veramente la struttura di progetto e controllo di tutti i materiali usati, dal calcestruzzo al ferro di armatura.

È interessante altresì notare l’importanza che, durante la confezionatura del calcestruzzo da gettare entro le casseforme, rivestiva la pezzatura delle sabbie e delle ghiaie ricavate dalla distruzione della collina rocciosa. Detto in maniera semplice, gli interstizi presenti nelle pezzature, a cominciare dalle ghiaie più grosse, devono essere colmati dalla ghiaia di pezzatura inferiore per l’intera serie di dimensioni, in modo che al momento dell’assiemaggio non sussistano spazi vuoti. A tale scopo, il laboratorio prove avrebbe vagliato le pezzature in uscita dall’impianto di frantumazione e stabilito le percentuali da mescolare nella massa degli inerti, sulla base di una determinata curva ottimale. In questo modo, gli spazi esistenti nella ghiaia più grossa sarebbero stati razionalmente riempiti dalla ghiaia di dimensioni via via inferiori e il procedimento sarebbe continuato fino a giungere alle pezzatura più piccola, i cui vuoti tra elemento ed elemento sarebbero stati colmati da sabbie di diversa pezzatura. Da notare che, allo scopo di erigere una diga di caratteristiche tecniche elevate, con i getti del calcestruzzo sarebbero stati regolarmente confezionati dei cubetti da 20 cm di lato che, dopo il necessario periodo di presa del cemento, sarebbero stati schiacciati da un macchinario di controllo che ne avrebbe verificato di fatto la resistenza agli sforzi.

Man mano che il tempo passava, si registrava anche una recrudescenza dei dissidi tra il guardiacaccia e la popolazione di Fagher che, una volta apprezzato il nuovo benessere, disertò in blocco il comitato, che alla fine contò soltanto una parvenza di iscritti e Menico per presidente.

Allora apparve ancora più brillante la vita famigliare del macellaio, dai lavori di abbellimento della sua villa e del giardino; la condotta esteriore sua e dei suoi si manteneva nella più squisita correttezza, senza magnificare in nessun caso, a parole, l’aumentata agiatezza.

LA DISTRUZIONE DELLA COLLINA ROCCIOSA

Ai nostri giorni è d’obbligo una scrupolosa cura dell’ambiente e si è diffusa tra tutti l’idea della sua importanza. Sono attenti anche i pubblici uffici nel rilasciare licenze di costruzione di opere nuove, che non devono comportare danneggiamento anche minimo ai luoghi interessati. Esistono pure accurati controlli di qualsiasi attività, sia essa sportiva, di produzione di materiale chimico, avente indirizzo culturale, commerciale o di qualunque altro tipo.

Non era così al tempo della nostra storia. Allora la mancanza di lavoro in grado di offrire a tutti una vita decente, non solo faceva accettare, ma addirittura sostenere con qualsiasi mezzo, anche innaturale, l’esecuzione di opere, anche di quelle che, come la costruzione di impianti idroelettrici comprendenti dighe simili a quella di Fagher, non solo contribuivano al benessere diretto della popolazione locale, ma erano destinate a fornire in futuro energia elettrica per l’intera nazione, nella prospettiva auspicabile di una trasformazione della sua economia, da contadina ad industriale.

Perciò i concetti basilari dell’ecologia non furono accolti favorevolmente a Fagher, dove si sperava soprattutto nell’importante impatto positivo sull’economia locale proveniente appunto dai nuovi lavori della grande diga.

Così non era sicuramente per Menico, il guardiacaccia, che molto giustamente non riusciva a tollerare l’idea della demolizione della sporgenza rocciosa, qui definita impropriamente collina, che faceva intima parte delle bellissime montagne. La sua opposizione ai lavori aumentò l’astio dei valligiani nei suoi confronti, per il severo controllo da egli operato sulla presenza di animali selvatici che da sempre venivano cacciati, diffondendo un profondo malumore tra la popolazione che in generale rifiutò di partecipare e apertamente osteggiò la creazione del comitato anti-diga.

Da segnalare un ultimo fattore importante. Menico, il guardiacaccia, era bene al corrente degli atti notarili in base ai quali i terreni erano stati di fatto acquistati dalla Società che costruiva la diga, basandosi su una falsa dichiarazione di proprietà formulata e sottoscritta da Giovanni il macellaio, con una condizione capestro, in quanto la loro validità era per legge subordinata alla mancata presentazione, entro un decennio, di ricorsi ufficiali da parte degli effettivi proprietari, stante che, in caso contrario, tali atti notarili potevano anche essere dichiarati nulli.

Si capisce bene che l’ente in cui la controversia con il guardiacaccia assumeva toni di grande preoccupazione, era la Società proprietaria del costruendo impianto idroelettrico, perché al suo interno si era ben consapevoli della realtà, cioè dei problemi inerenti la effettiva proprietà del terreno dove si lavorava come pure si aveva piena coscienza dei danni ambientali che l’intero impianto idroelettrico, ed in particolare la distruzione totale della collina rocciosa, avrebbero causato all’ambiente, e di conseguenza delle difficoltà che sarebbero potute arrivare nella prosecuzione dei lavori dall’operato del guardiacaccia medesimo.

Partendo da questo punto, per arrivare fino all’operato del Comitato anti-diga e a quello del guardiacaccia in particolare, che tra l’altro era effettivo proprietario di una parte dei terreni incriminati, il passo fu breve. Vedremo più oltre come questi scottanti concetti riuscissero a indurre la formulazione di ipotesi addirittura impensabili per una grande Società costruttrice.

UNA NOTIZIA TRAGICA

A pochi mesi di distanza dall’inizio dei lavori, a Fagher giunse una notizia tragica: è morto il guardiacaccia Menico, scivolato nel dirupo in fondo a una delle corsie ricavate tra gli alberi. La notizia sembrò incredibile, in primo luogo per la nota maestria di Menico nel muoversi in montagna da esperto scalatore. Una prova benché labile dell’incidente occorso a Menico, era data dalle condizioni del dirupo, lungo il quale si notavano degli strappi nella vegetazione provocati da un uomo che, cadendo lungo il precipizio, avesse tentato in ogni modo di aggrapparsi ai cespugli.

Dall’autopsia risultò che il decesso era dovuto ai gravissimi urti del corpo contro la parete di roccia, non avendo riscontrato il medico incaricato ferite di arma da fuoco o lesioni di armi da taglio, come coltelli, oppure da percosse, colpi di bastone e pugni. Anche gli esami dell’apparato digerente e della circolazione sanguigna risultarono esenti da fattori lesivi per la salute della persona, fatta eccezione, come detto, per i traumi dovuti agli urti contro la roccia e sul suolo al momento della caduta.

Vennero condotte indagini approfondite, perché la questione non era stata affatto archiviata come morte accidentale, mancando ancora la certezza delle modalità effettive dell’incidente.

Gli abitanti di Fagher ne furono sconvolti. Erano increduli, non ritenevano possibile che Menico fosse scivolato in quel punto, anche perché, in corrispondenza del trigonometrico che là aveva sede, si apriva una minima piazzola che serviva per poter montare lo strumento di rilievo.

Nella sala d’attesa del barbiere, una specie di centro discussioni e pettegolezzi, si parlava tra clienti e tenutario, della morte inspiegabile di Menico e si raccontava di continuo anche della famosa cena a cui avevano partecipato tante persone del paese e tra queste Menico.

In tutti i bar di Fagher e anche in macelleria si confabulava della ferale notizia.

IL SUICIDIO DEL CAPRIOLO

Un bel giorno, proprio nella macelleria, nacque un brusio del tutto nuovo che, molto stranamente, ebbe il potere di colpire lo stesso titolare Giovanni tanto da fargli assumere un atteggiamento totalmente diverso da quello usuale che lo portava a vietare che nel suo locale si facesse chiacchiericcio, che si raccontassero facezie o fatti veri, che comunque ci si perdesse in racconti di qualsiasi genere. In quell’occasione Giovanni partecipò anch’egli alla discussione chiedendo particolari, esprimendo stupore e sopratutto un grande interesse. Il nuovo ed inquietante argomento di discussione era quello riferito dal personale di lavoro della diga il quale era venuto a conoscenza che il geometra e tre canneggiatori, erano così chiamati gli uomini di aiuto ai rilievi topografici, tra i quali era anche Carlo, il bracconiere, nel percorrere la corsia tra i pini, avevano notato una capriolo femmina che si era dapprima infilata nella stessa corsia e si dava a risalire il viottolo, non avendo il coraggio di tornare indietro proprio a causa della loro presenza. Si asserì che nella mente del capriolo senz’altro il geometra e i tre canneggiatori apparivano in veste di cacciatori armati di fucili da caccia e non già di innocui strumenti topografici. Il racconto terminava con un finale a sensazione. Il capriolo, una volta arrivato in fondo alla corsia dove si trovava il punto trigonometrico, non vide più alcuna via di fuga, la fittissima vegetazione del bosco ai due fianchi gli appariva non praticabile e davanti a lui si apriva soltanto un baratro ripido e inagibile, anche per un animale esperto di pendici montane come era lui stesso. In realtà si era venuta a verificare una condizione così disperata per la povera bestia che le fece prendere la tragica decisione di suicidarsi buttandosi a capofitto nel vuoto. Giovanni andò oltre preoccupandosi attivamente delle caratteristiche del viottolo e del dirupo così ripido da provocare la morte di una bestia selvaggia molto esperta nel percorrere le ripide superfici rocciose delle montagne .

La diffusione in paese del racconto degli operai generò illazioni, dubbi e ipotesi le più impensabili, riguardanti la morte del guardiacaccia, che si supponeva avvenuta nello stesso punto da cui si era buttato il capriolo. Tra varie ipotesi figurava anche l’affermazione che nel dirupo non fosse affatto precipitato Menico, ma soltanto il capriolo. mentre Menico avrebbe potuto esservi stato trasportato dagli assassini per la messinscena dell’incidente. Ma il tutto risultò inattendibile a seguito dei risultati dell’autopsia.

Altre voci incontrollabili uscivano o con la affermazione che in zona da tempo immemore mai si era mai sentita una faccenda come quella di un capriolo, considerato come il re della montagna, che potesse decidere di di ammazzarsi da solo. Forse la bestiola non si era buttata nel vuoto ma invece era riuscita a fuggire nel bosco . Infatti il cadavere non fu mai trovato e la sparizione venne attribuita a qualche bracconiere locale che se lo era portato a casa per mangiare la quella carne prelibata. Forse nessuno era mai i caduto nel vuoto roccioso né bestia né uomo.

Insomma, il dubbio sulla morte di Menico continuò a serpeggiare e la gente andava a pensare le eventualità più disparate.

Il movente più chiaro, anche se di fatto considerato impossibile, era l’attività del comitato antidiga portato avanti proprio da chi lottava per far sospendere i lavori in attesa di accertare l’impatto con l’ambiente naturale di Fagher e delle sue montagne, incentrandosi perlopiù sulla demolizione della parte essenziale della montagna costituita dalla collina rocciosa. La disgrazia accaduta a Menico infatti coincise con lo scioglimento del comitato, così che i grandi lavori procedettero secondo i programmi stabiliti, senza incontrare altre opposizioni. Questo contribuì all’accavallarsi di illazioni sul pericolo che il guardiacaccia avrebbe rappresentato per il compimento della diga.

Qualcuno trovò perfino i collegamenti, in totale assurdità, tra l’assassinio e la vicenda del figlio del meccanico Bettega che, innamorato com’era della moglie di Menico, poteva aver architettato chissà quale intrigo per poter coronare il sogno di unirsi all’amata. Tale supposizione era avvalorata dal ritorno del ragazzo da Londra, avvenuto proprio il giorno seguente la morte dell’uomo.

Altri ancora misero in dubbio la fine del capriolo per suicidio, ritenendola una pura trama ordita da Carlo, il bracconiere, per proteggersi dai guai che Menico avrebbe potuto procurargli.

A tutto il bailamme di chiacchiere vennero ad aggiungersi le strane parole del macellaio che solitamente stigmatizzava i pettegolezzi della sua clientela, mentre in questa occasione infranse ogni regola di comportamento, compreso l’obbligo di tutela, durante e dopo l’orario di lavoro , della privacy dei suoi clienti, arrivando al punto di divulgare notizie in base alle quali Carlo da tanto non andava più in macelleria a comprare carne di capriolo, come faceva un tempo. Come mai? Forse la causa dell’assassinio andava ricercata nella grande contrarietà suscitata in paese dall’eccessivo rigore di Menico nel punire qualunque mancanza dei paesani verso l’ambiente, flora o fauna che fosse. Si pensò possibile che qualcuno fosse arrivato al limite della sopportazione e avesse risolto il problema in maniera definitiva.

A sua volta Antonio, il cugino di Menico, raccontò la faccenda della collina che aveva tanto indispettito il guardiacaccia, ingannato dalla vendita del terreno, operata a suo dire mediante procedure illegali. Si poteva infatti supporre che da un atto notarile abusivo fossero derivati dissidi tanto forti da condurre qualcuno al suo assassinio per far cessare ogni possibile controversia. Faceva fede, in questo senso, la vera isteria che invadeva Menico aL sentir parlare dello spianamento della collina rocciosa che, a dare retta a lui, era anche di sua proprietà.

ARTEMISIO IL GRANDE INVESTIGATORE

Da una ridda di soluzioni che altro non erano se non autentici parti di fantasia mossi da un avvenimento tanto tragico e caratterizzati dalle motivazioni le più astruse, i parenti di Menico arrivarono a un’importante decisione: dare incarico ad Artemisio, un investigatore privato che aveva studio in città e che godeva di grande fama, in grado quindi di dare forma alle mille dicerie sulla morte del povero guardiacaccia, di risolvere il mistero.

L’investigatore accettò l’incarico, giudicandolo complesso e interessante. Oltretutto quello di Artemisio era il nome di un’antica città greca, rasa al suolo proprio come veniva spianata ora la collina di Fagher.

Subito si affrettò a collegare tra di loro gli avvenimenti.

Carlo che non va più dal macellaio a comprare carne di capriolo; un capriolo si suicida nel precipizio dove si pensava fosse precipitato Menico, trovato esanime ai piedi del dirupo dove però avrebbero potuto trasportarlo dei malviventi per sviare le indagini, ma quest’ultima ipotesi era stata smentita dai risultati dell’autopsia.

Un possibile colpevole poteva essere trovato tra i responsabili della società costruttrice della diga, preoccupati dai problemi che Menico e il suo comitato antidiga avrebbero potuto procurare.

Per quanto riguardava la caduta dal dirupo, esisteva una sola certezza: che vi era caduto il capriolo, ma il fatto che vi fossero precipitati a poca distanza di tempo uno dall’altro, il capriolo e Menico, faceva insorgere seri dubbi nella mente di Artemisio.

L’investigatore passò poi all’interrogatorio dei tre canneggiatori e del geometra di cantiere, presenti alla risalita lungo la corsia del bosco e preceduti, a quanto asserivano, dal capriolo. Tutti raccontarono lo stesso fatto, ma Carlo ebbe delle titubanze strane che insospettirono e indussero l’investigatore a visitare la sua casa, mentre quello era fuori per lavoro, allo scopo di interrogare la moglie sulla carne di capriolo che mangiavano di continuo. La moglie confermò che si trattava di una carne che piaceva molto, tanto che ne conservava intere porzioni nel congelatore.

Il primo dubbio di Artemisio riguardò dunque Carlo come autore del delitto. Questa l’ipotesi : Carlo era un bracconiere che tante volte andava a caccia nel bosco, privo di regolari permessi. In quel momento si sentiva in colpa per aver nascosto la faccenda del capriolo, che per giunta era anche femmina e che in seguito egli e i suoi famigliari avevano consumato senza denunciarne il ritrovamento. Non era da escludere, quindi, che Carlo avesse chiesto a Menico di effettuare un sopralluogo sul trigonometrico, adducendo a scusante la rivelazione di una storia strana di caprioli suicidi. Una volta giunti sul posto, Carlo, per spiegare nel dettaglio cos’era successo, avrebbe indotto Menico a sporgersi al di sopra del dirupo per convincerlo della pericolosità di quella posizione e poi, quando l’altro si era effettivamente sporto per guardare giù, ne avrebbe approfittato per dargli una spinta che lo aveva liberato per sempre da tutte le paure, non solo per quell’ultimo capriolo ma per le tante sue colpe pregresse. Tra i fattori che giustificavano questa ipotesi agli occhi di Artemisio, erano la reticenza mostrata dal bracconiere nel racconto, nonché la presenza di tanta carne di capriolo nel congelatore, confermata dalla moglie.

L’indagine più lunga e dettagliata svolta dall’investigatore riguardò la Società proprietaria dell’impianto idroelettrico e le motivazioni che avrebbero potuto giustificare un evento gravissimo svolto dalla stessa come l’uccisione di una persona e, nel caso specifico del guardiacaccia Menico. Tali motivazioni erano tanto pertinenti da poter, per assurdo, portare a soluzioni estreme poiché l’eventuale sospensione dei lavori di costruzione della diga di Fagher avrebbe comportato, oltre ad un grave e diretto danno economico, delle vere rivoluzioni politiche ed addirittura di dissapori di valenza internazionale. Infatti la nascente trasformazione dell’Italia da stato agricolo ad uno prettamente industriale, per la cui riuscita era determinante la produzione di energia elettrica che dai programmi doveva derivare dall’impianto idroelettrico con la diga che ne era elemento fondamentale, avrebbero potuto subire delle restrizioni o addirittura venire rinviati o annullati. Notevole quindi l’attenzione di Artemisio. Per il grande impegno con cui egli curò ed approfondì questa indagine si deve dargli atto in toto. Purtuttavia non gli riuscì di trovare nessun nesso. Al contrario ebbe modo di garantirsi che la Società proprietaria della diga non poteva nemmeno essere messa in discussione.

A questo punto del suo lavoro Artemisio si trovò, come gli accadeva spesso, alla decisione che usava adottare in totale assenza di indizi validi : la sua passione di investigatore lo spingeva nell’assurda decisione di percorrere la strada meno probabile, quella che, a priori, non prospettava nulla di buono perchè, a suo avviso, era proprio negli elementi meno approfonditi, meno appariscenti che si nascondeva il bandolo della matassa. Egli formulò formalmente ed a sè stesso la domanda: ma quale é la direzione la più improbabile da scegliere in questo caso così astruso? . La risposta della sua lunga esperienza gli comunicò che doveva percorrere quella del suicidio del capriolo proprio per il motivo che null’altro poteva essere meno promettente di quella. Ancora una volta egli diede piena retta il suo subconscio e cominciò a studiare bene la storia del capriolo suicida. Riuscì subito a scoprire una verità : autenticamente vero che diversi di questi animali si erano suicidati, ma i suicidi noti ai cacciatori erano accaduti a una condizione sine qua non, che in realtà si verificava soltanto se l’animale veniva inseguito a lungo da esperti cacciatori e da mute di veloci e instancabili cani, per ore e ore, portando la povera bestia a una stanchezza e a un terrore dolorosi, accompagnati dalle ferite e dall’angoscia. Nel caso in questione, tali condizioni non si erano verificate ed era logico supporre che la situazione fosse quindi del tutto diversa, fuori dell’ordinario e di fatto inverosimile. Da questo momento incominciò a veder chiaro.

Immediatamente l’investigatore pensó che il capriolo di cui si parlava, non stesse passeggiando tranquillamente davanti ai tecnici, come affermato da tutti loro, ma che fosse reduce dall’inseguimento di cacciatori e mute di cani, che improvvisamente, vedendo che l’animale si addentrava verso la corsia tra gli alberi per cui salivano anche i tecnici, subì un arresto che ad Artemisio apparve facilmente motivato da una ragione evidente: era sicuramente caccia di frodo, da nascondere. L’investigatore si chiese: come può essere che un cacciatore, proprio quando capisce che le possibilità di fuga della preda sono minime e proprio quando quella si intrappola da sola in un cul-de-sac dove è semplice catturarla, come può essere che proprio allora vi rinunci? La cosa gli appariva inspiegabile e per questo optò per un approfondimento specifico. Indagando in lungo e in largo, venne a sapere che non molto lontano da quei luoghi si trovava una stradina nascosta nei boschi, che portava a un’osteria dove i cacciatori erano soliti rifocillarsi prima di cominciare la caccia. Vi andò subito per cercare informazioni. Si presentò come l’investigatore Artemisio: vorrebbe sapere se qualcuno, una delle mattine precedenti o subito seguenti il giorno della morte di Menico, il guardiacaccia noto nella zona, si ricordasse di una sosta di cacciatori lì, in osteria.

Sì, risposero, fu un momento che non si poteva dimenticare. Qualche giorno prima o dopo la fatidica data, si era fermato un gruppo di cacciatori con i cani. L’oste era in grado di fornire ad Artemisio perfino qualche informazione sulle caratteristiche somatiche di quegli individui e il colore dei cani, perché prima di allora del tutto sconosciuti anche ai gestori dell’osteria.

Artemisio lasciò all’oste il suo recapito telefonico, pregandolo di informarlo immediatamente qualora quel gruppo si fosse ripresentato a colazione.

In seguito riuscì a ottenere notizie più precise. Venne a galla che si trattava di cacciatori che non erano del luogo, ma giravano ovunque per cacciare in grande stile.

Continuando la sua improbabile via di ricerca, l’investigatore giunse a formulare l’ipotesi che la morte di Menico potesse anche essere stata provocata da quei cacciatori, preoccupati di essere scoperti per le continue infrazioni alle leggi sulla caccia.

In realtà Artemisio conferiva a quell’ipotesi l’unico valore di mettere in dubbio la soluzione precedente, in base alla quale sarebbe stato Carlo il colpevole. Nella sua mente, egli immaginava per il momento soltanto immaginaria, appunto, una vera organizzazione che compiva atti illegali a largo raggio, riuscendo a entrare in possesso di notevoli quantitativi di carni pregiate di contrabbando; a causa dei buoni introiti economici, nel mentre uno dei maggiori ostacoli al prosieguo di tale lucrosa attività sarebbe stato rappresentato proprio da Menico. Chi sa, magari il guardiacaccia era sulle loro tracce.

Quello che mancava totalmente ad Artemisio era però una prova poichè le sue supposizioni, pur se rigorosamente logiche, potevano anche essere totalmente false.

La situazione contorta continuò a tormentarlo finché un bel giorno effettuò ricerche approfondite sulla personalità del guardiacaccia e sui suoi legami famigliari. Venne così a sapere che aveva un cugino residente in un paese vicino di nome Antonio. Lo andò a trovare e Antonio gli confermò che il cugino era una persona competente, appassionata al lavoro, buona e corretta in tutti i sensi e con la quale era sempre andato d’accordo. Artemisio insisteva però nel chiedere se fosse mai capitato in tanti anni qualcosa di strano nella vita di Menico. A quel punto Antonio si ricordò della cena e del grande nervosismo che aveva assalito il cugino, tanto che più tardi si era provato ad analizzarne le ragioni, senza però riuscire a capire di cosa si trattasse. Antonio affermò che il maggiore dispiacere per Menico era una questione di proprietà presunta di parte della collina dove sorgeva adesso la cava di roccia. Aggiunse che a questo si sommava il rincrescimento per la sparizione di quel pezzo di paesaggio e per lo stravolgimento del panorama che ne sarebbe derivato. Antonio confermò pure che, con la morte di Menico, il comitato antidiga si era dissolto come neve al sole.

Artemisio allora condusse una ricerca tra gli atti notarili con cui la società aveva acquisito i terreni sulla collina. Si trattava di una procedura semplice, perché gli atti erano conservati nei registri notarili, che sono pubblici.

Dalla lettura risultarono due tipologie di acquisto. Gran parte dei terreni era stata acquistata da privati, in maniera del tutto lineare, ma per qualche altro piccolo appezzamento di terreno roccioso si erano incontrate difficoltà proprio per la scarsa consistenza e il basso valore commerciale, per anni quei terreni erano stati completamente dimenticati dai successori dei proprietari, a loro volta deceduti tempo prima. Al momento di effettuare la stesura degli atti di vendita alla società proprietaria della diga, si era scoperto che numerosi valligiani, morti da tempo, figuravano ancora comproprietari della collina, quindi era impossibile rintracciarli per l’atto di vendita. Il notaio specificò nei vari atti l’emissione di una legge nuova, avente lo scopo preciso di facilitare la messa a punto di certe intestazioni irregolari di terreni, soprattutto montani e di scarso valore commerciale, di cui nessuno si interessava più. La facilitazione, concessa legalmente, era la seguente: in tutti i casi di alienazione di terreni di scarso valore, intestati in comune a persone decedute da decine di anni, sarebbe stato sufficiente che un proprietario dei terreni adiacenti si dichiarasse proprietario anche di quei piccoli appezzamenti e il notaio avrebbe potuto redigere l’atto anche in assenza dei legittimi proprietari, deceduti peraltro da tempo. Ogni atto poteva considerarsi valido alla condizione che, entro i successivi dieci anni, non sorgessero contestazioni da parte degli effettivi proprietari o aventi diritto.

Menico, quindi, per successione proprietario di alcuni di quei piccoli appezzamenti, aveva le carte in regola per sollevare le contestazioni sufficienti a ottenere l’annullamento della concessione e quindi della proprietà della collina rocciosa che stava per essere totalmente demolita.

Nel caso specifico risultava un dato interessante. La persona che si era dichiarata proprietaria di tutta l’aerea era il macellaio Giovanni, di Fagher, che, proprietario di una parte dei terreni, si arrogò il diritto di vendere l’intera collina alla società costruttrice della diga per una cifra piuttosto alta, come risultò dagli atti di vendita.

Artemisio, in possesso di questa storia, tornò da Antonio e gli chiese qualche ragguaglio in più. Menico era indispettito dal comportamento del macellaio, non solo perché aveva combinato il pasticcio della vendita di terreni non suoi, speculandoci sopra, ma anche perché teneva in piedi una ghenga di cacciatori che procacciava carne buonissima a diverse macellerie in zona, uccidendo povere bestie in aperto contrasto con le norme vigenti. Antonio precisò anche che Menico avrebbe minacciato il macellaio intimandogli di cessare immediatamente ogni attività di frodo, ma non aveva prove certe, altrimenti lo avrebbe denunciato per il duplice reato di caccia abusiva e vendita di terreni che, sia pure in piccola parte, non erano suoi ma di proprietà dello stesso Menico.

A questo punto tutto all’investigatore fu chiaro. Il responsabile di una discreta serie di reati era una delle persone più in vista del paese, quella che appariva corretta e ligia ai doveri imposti dalla legge. Era Giovanni il macellaio, che a un certo punto si sarebbe sentito minacciato da Menico, al corrente delle sue malefatte anche se in modo approssimativo. E tanto gli bastava per desiderarne la morte, quindi l’eterno silenzio.

Nella mente dell’investigatore, il delitto avrebbe potuto svolgersi in questi termini: Giovanni avrebbe invitato Menico per un sopralluogo in corrispondenza del trigonometrico, con la scusa di narrargli personalmente e nei dettagli quanto accaduto al capriolo cui il guardiacaccia teneva tanto. Una volta sul posto sarebbe stato facile trovare il modo di spingerlo giù per il dirupo e far passare così la sua morte per un banale incidente sul lavoro.

Il problema di Artemisio ora si riduceva al dubbio tra le diverse soluzioni, tutte quante simili nello svolgimento, che vedevano Carlo o Giovanni come assassini, ma di fatto senza aver in mano elementi di prova.

Si convinse allora che, per procurarsi tali riscontri avrebbe dovuto preparare per tempo il terreno, ma non aveva idea di come fare. Ragionandoci, si accorse della propria mancanza di non avere mai interpellato i superiori di Menico dell’ufficio provinciale del Corpo Forestale dello Stato.

Dal colloquio ottenuto immediatamente, risultò che il guardiacaccia era un ottimo elemento e che la sua perdita era considerata grave sotto tutti i punti di vista. Si fece illustrare le funzioni del Corpo Forestale dello Stato e chiese anche per scrupolo se, caso mai ne avesse avuto bisogno, avrebbe potuto contare sulla presenza di una guardia, atta a certificare il sussistere di gravi fatti inerenti il bracconaggio.

Gli venne spiegato che per un sopralluogo del genere, occorreva predisporre un mandato di perquisizione motivato da precise ragioni.

Un bel giorno la fortuna lo assistette. Era mattino presto e ricevette una telefonata dal titolare dell’osteria dove erano soliti fare colazione i cacciatori. L’oste gli comunicava un fatto che presentava qualche incongruenza. Erano da poco stati a far colazione lì i cacciatori in questione ed erano partiti poi per la battuta di caccia. Bene, secondo l’oste quella era un’azione illecita di bracconaggio, dato che in quel periodo dell’anno la caccia era chiusa. Artemisio allora si informò telefonicamente per avere conferma sulla possibilità di predisporre già un mandato di perquisizione nella macelleria di Giovanni. Fatto questo, si portò a Fagher, in un posto defilato vicino alla macelleria, dove attese, chiuso nella sua auto, al di fuori della visuale del macellaio. Per tutta la giornata non aveva notato nulla di anormale, ma dopo l’imbrunire vide arrivare un grosso furgone con dei tizi che si misero a scaricare tanti animali morti, intatti, Artemisio vedeva bene che non erano le carcasse destinate a una macelleria.

La sera stessa spedì un telegramma al comandante della Guardia forestale, sollecitando il controllo ufficiale di una guardia, garantendo che lui stesso, Artemisio, sarebbe stato presente per provare i sospetti che si addensavano sul conto di Giovanni il macellaio.

In quel sopralluogo all’indomani della telefonata, Artemisio e la guardia forestale trovarono il macellaio intento a scuoiare gli animali scaricati la sera precedente e di cui fu facile dimostrare la provenienza illegale. L’investigatore ebbe l’accortezza di esplorare il vasto garage sul retro della macelleria, dove erano ricoverati automezzi di tutti i tipi.

È importante far notare la sua facoltà di osservazione acuta, che lo indusse ad esaminare con occhio critico tutto ciò che si trovava in prossimità o distante dal cuore della questione. Osservò e registrò nella sua memoria quello che vedeva attorno a sé, compresi i dettagli che non avevano alcuna attinenza con lo scopo del sopralluogo, ma che gli offrirono in seguito la possibilità di rivedere l’insieme e di assegnare a ogni oggetto una funzione. In particolare rimase impresso nella sua mente un mezzo di trasporto inconsueto e per questo da analizzare con cura.

L’oggetto che non riusciva ad allontanare dalla sua mente era un piccolo motocarro a tre ruote, tipo Ape Piaggio, che sfigurava in confronto agli altri furgoni eleganti e funzionali, dotati di ampie cabine posteriori a tre porte o di un cassone scoperto, parcheggiati in bell’allineamento nel garage

L’investigatore non riusciva a capire l’utilità di quel veicolo, tanto che cercò lumi da un esperto come Bettega, il titolare dell’officina di riparazione automezzi di Fagher, al quale chiese qualche notizia in più sull’uso che in loco si faceva dei motocarri Ape.

Bettega gli rivelò una cosa interessante. C’era a Fagher un operaio che per lungo tempo aveva lavorato al seguito del topografo e, prima dell’inizio dei grandi lavori della diga, conduceva normalmente un motocarro Ape. Era Carlo il bracconiere e Bettega era sicuro che proprio quello avrebbe potuto fornire ad Artemisio informazioni più adeguate.

L’incontro con Carlo che ne seguì, fu ricco di elementi altrettanto interessanti. Questi aveva lavorato alla formazione topografica della rete di triangolazione, che consisteva in continui sopralluoghi ai punti trigonometrici siti in alta montagna e in posizione raggiungibile solo per strette strade terribilmente accidentate, dove era necessario transitare a piedi portando a spalla gli strumenti. Ma proprio Carlo aveva spiegato al geometra che invece di andare a piedi si sarebbe potuto benissimo usare il motocarro Ape, perché di larghezza inferiore al metro e mezzo, e in più il cambio aveva una prima marcia talmente ridotta da imprimere una velocità di corsa di poco superiore all’andatura di un uomo che và a piedi, ma in grado di portarli agevolmente per quei sentieri stretti e tortuosi. In effetti, gran parte dei rilievi si poterono effettuare raggiungendo con il motocarro tutti i punti trigonometrici, fino al completamento della rete. Carlo aggiunse che, terminato il lavoro ed essendosi divulgata la notizia a Fagher, altri valligiani si erano dotati del mezzo per poter accedere più facilmente alle parti della montagna servite solo da sentieri e riuscire così a portare a casa piccoli carichi di legna.

L’interrogatorio di Carlo fu illuminante per Artemisio: aveva capito che il macellaio tra i suoi mezzi possedeva, come altri, anche l’Ape Piaggio perché era a quei tempi l’unico mezzo disponibile in grado di percorrere, con carichi modesti, i sentieri di montagna. Soprattutto aveva finalmente chiare nella sua mente le sinistre modalità adottate per premeditare segretamente e adeguatamente l’assassinio di Menico. La cosa gli appariva ora chiarissima. Menico non era stato ucciso né da armi da fuoco, da lame taglienti o da altri attrezzi contundenti, era stato addormentato con un trucco qualsiasi e trasportato con l’Ape di Giovanni fino al ben noto trigonometrico, da dove era poi stato fatto precipitare a valle lungo quell’altissima parete. Farlo cadere per il dirupo nel sonno era pur sempre consegnare a morte certa un uomo vivo.

In altre parole, l’assassinio di Menico era stato perpetrato nell’unico modo già rilevato e certificato nel corso dell’autopsia, ma attraverso un piano difficilissimo da scoprire.

In questo senso si poteva sostenere che l’inventiva e l’accortezza dell’investigatore erano riuscite in un’indagine di estrema difficoltà.

Artemisio quindi tornò dal Comandante del Corpo Forestale dello Stato per metterlo al corrente della sua scoperta, ma a conferma di quello che era soltanto uno scenario immaginato, era adesso necessario requisire l’Ape di Giovanni, nella speranza di trovare su quel mezzo qualche traccia che dimostrasse il trasporto di Menico.

Venne ordinato il sequestro e la ricerca portò alla conferma della presenza del corpo di Menico sull’Ape, in base al rinvenimento di minime tracce di sangue, di pelle umana e di capelli che, mediante il raffronto di analoghi referti rintracciatati in casa del guardiacaccia, risultarono essere i suoi.

Al termine delle indagini, l’investigatore incontrò la vedova del guardiacaccia, accompagnata da Antonio, il cugino, e le fornì ulteriori ragguagli sulle scoperte, invitandola a presentare formale denuncia contro il macellaio; lo stesso Artemisio, le assicurò, avrebbe volentieri testimoniato su quanto era arrivato a scoprire.

IL PROCESSO

Al processo l’imputato Giovanni si dichiarò innocente, insistendo a lungo sulla sua estraneità ai fatti: non aveva organizzato alcuna tresca di cacciatori di frodo, era soltanto colpevole di avere comperato da loro la carne di animali che riteneva regolarmente abbattuti. Giurò di non aver assolutamente niente a che vedere con la morte di Menico, il guardiacaccia.

L’andamento del processo però cambiò radicalmente a seguito dell’intervento di Artemisio, che produsse un’arringa completa e convincente in grado di catturare l’attenzione e la curiosità di tutti i presenti, giudici e avvocati compresi, e riuscì nell’intento di convincere tutti i presenti della colpevolezza dell’imputato.

Quello che sorprese profondamente l’uditorio e tutti i magistrati e avvocati fu la parte introduttiva dell’arringa

Artemisio volle spiegare quale fu la scintilla che fece scoppiare l’incendio nell’animo dell’assassino. Tra lo stupore del presenti Artemisio spiegò, fin dalle prime frasi, che fu proprio il suicidio del capriolo a far apparire nitidamente nella mente di Giovanni il macellaio la soluzione dei suoi problemi in tutti i suoi dettagli esecutivi. In sequenza essi sono: l’esistenza di un viottolo nascosto nella corsia del bosco molto atto allo scopo in quanto consentiva il trasporto fino alla sommità del precipizio di un carico modesto come il corpo del guardiacaccia utilizzando il motocarro Ape, il dirupo tanto scosceso posto alla fine della corsia che garantiva la morte per urti con la roccia, il fatto che quella bestia molto pratica delle pareti rocciose vi si fosse gettato disegnò la modalità ideale per liberarsi del pericolo che gravava su di lui .

L’oratore passò quindi alle motivazioni che avevano realmente spinto l’imputato all’omicidio del guardiacaccia, considerato elemento pericoloso perché aveva intuito tutto. Giovanni da tempo si serviva di cacciatori che lo rifornivano sistematicamente di carne di provenienza illecita, cacciata in totale dispregio delle leggi vigenti. In questo modo egli fomentava un’attività illegale, contrastata fattivamente dal guardiacaccia nell’esercizio delle sue funzioni. Per risolverne i problemi restava soltanto l’eliminazione del guardiacaccia medesimo.

Oltre a questo, una decina di anni addietro, il macellaio si era spacciato, senza averne diritto, per effettivo proprietario di terreni che erano in comproprietà di alcuni compaesani, tra cui figurava il guardiacaccia.

Quest’ultimo, venuto a conoscenza della realtà delle cose anche in virtù del suo lavoro, aveva preso contatto con l’imputato rendendolo edotto che, non essendo ancora trascorsi i dieci anni dalla stipulazione degli atti notarili, Menico poteva ancora agire per il loro annullamento. Tutto ciò avrebbe potuto comportare addirittura una sospensione dei lavori della diga per accertamenti con enormi danni per la popolazione di Fagher la quale avrebbe attribuito proprio a lui, macellaio locale, la colpa di questo danno. Anche questo era una motivazione di per sè sufficiente per indurre Giovanni all’omicidio.

A questo punto Giovanni, che sentiva imminente la sua rovina in paese, architettò il diabolico e acuto piano di eliminazione di Menico.

Avendo già deciso che, trattandosi di un guardiacaccia, la soluzione migliore consisteva nella studiata simulazione di un incidente, per cui Menico avrebbe trovato la morte in una delle sue frequenti missioni in alta montagna, l’imputato, scartate le armi da fuoco e le armi bianche – che gli avrebbero procurato guai in caso di colluttazione –, stabilì di farlo precipitare dal dirupo così come aveva fatto il capriolo. Non pensò di usare la forza per scaraventarlo giù, considerata anche la prestanza fisica di Menico, ma di addormentarlo con un potente sonnifero, facilitando così la messinscena.

Artemisio chiuse la sua arringa con la elencazione del programma reale di esecuzione dell’omicidio che fu riassunto in soli quattro punti base..

1. ottenere un incontro con il guardiacaccia Menico in casa propria, motivato dalla opportunità di discutere delle note questioni;

2. somministrare a Menico un forte sonnifero, mescolato all’acqua o alla birra;

3) Caricarlo ben coperto da un tendone sul motocarro APE che li avrebbe portati in cima al dirupo.

4) Lassù sarebbe stato uno scherzo liberarsi del corpo.

In conclusione, Giovanni venne condannato per assassinio premeditato e i cacciatori per l’attività di frodo che svolgevano da tanto tempo

Carlo, il bracconiere, non fu nemmeno citato né interpellato.

L’arringa di Artemisio fini con una curiosità. Sappiate voi paesani di Fagher che tutta la vicenda dall’inizio alla fine è strettamente legata alla vita di una bestiola innocente: il capriolo suicida che in un primo tempo ha fatto capire all’assassino la strada da percorrere per eseguire il delitto senza possibilità di essere scoperto ma poi gli và dato il merito di aver fatto anche capire a me tutta la trama in modo che la giustizia potesse aver la meglio.

Tutto il paese commosso si strinse intorno alla vedova disperata, che veniva a mancare di un marito rigoroso nell’espletamento del suo lavoro, al quale voleva veramente bene e da cui era riamata.

Il figlio del meccanico Bettega si premurò di porgerle le più sentite condoglianze, ringraziandola delle belle discussioni di un tempo. Le confessò che la perdita di Menico lo aveva così sconvolto da farlo decidere per un allontanamento definivo da Fagher e il trasferimento in America, dove aveva trovato quel lavoro tanto a lungo sognato. Non pensava praticabile qualunque altra soluzione, ancor più ora che i rapporti con lei non potevano esistere al di fuori di una sincera amicizia.

Da aggiungere una notizia venuta a galla qualche anno dopo quando la si poteva dire ai quattro venti senza correre alcun rischio. Allora Carlo il bracconiere si beó di annunciare che il capriolo suicida se lo era ricuperato lui stesso. E nel raccontare agli amici la sua bravata aggiunse: io non sono così stupido da lasciar marcire una bontà del genere e me la sono mangiata assieme al geometra che a suo tempo avevo invitato a casa mia.

POST SCRIPTUM

Precisazioni dell’autore

Ritengo necessario precisare che molti degli avvenimenti compresi nel racconto “Il suicidio del capriolo”, non sono altro che episodi vissuti dall’autore in prima persona, raccontati allo scopo preciso di archiviarli in una storia disponibile a tutti i lettori.

Il secondo scopo consiste nella speranza che tali avvenimenti destino la curiosità e l’interesse di chi legge, per episodi, usi, costumi e modi di lavorare davvero straordinari, a oggi completamente sopraffatti da un progresso che li ha sostituiti in modo tanto più efficace quanto di sicuro meno bello.

Ritengo opportuno riportare alcuni esempi.

Chi scrive ha lavorato, con compiti non secondari, nella costruzione di opere straordinarie come la realizzazione di impianti idroelettrici, in particolare dighe di sbarramento: diga di Rocca d’Arsiè, in provincia di Belluno (1954); diga di Stramentizzo (1954-55) nel comune di Castello di Molina di Fiemme (Trento); diga di Val Noana (1958), in Trentino nel comune di Imer; infine la diga di Valvestino (1962) facente parte dell’impianto reversibile di Gargnano, in provincia di Brescia.

Tra gli episodi del racconto, il suicidio del capriolo è realmente accaduto così come è riportato. L’autore è stato in effetti il geometra che, insieme a tre canneggiatori, ha percorso la corsia scavata tra i pini, per raggiungere il punto trigonometrico cui appoggiarsi per il tracciamento delle opere. Di fronte alla comitiva, correva un capriolo femmina che, arrivato in fondo alla corsia e non trovando scampo, si era effettivamente gettato nel vuoto. Un canneggiatore – qui nominato Carlo, ma che in realtà si chiamava Silvio – aveva capito tutto ed era rimasto in silenzio. Dopo una settimana ci invitò a cena a casa sua, dove mangiammo quel capriolo che – parole sue –, non si poteva lasciar marcire in fondo al burrone.

Un altro episodio determinante della storia è la demolizione della collina rocciosa per ricavare l’inerte necessario alla fabbricazione del calcestruzzo.

Ebbene esiste una diga che è stata interamente costruita con il materiale calcareo proveniente dallo scavo di un cratere che ha via via eroso la parete rocciosa, facendone precipitare gli spezzoni in un pozzo con sottostante galleria di accesso agli impianti di confezionatura, in modo tecnicamente dimostratosi straordinario e del tutto analogo a quanto descritto nel racconto.

Al giorno d’oggi, a distanza di sessant’anni, lo scempio provocato da quei crolli è mascherato da una fitta vegetazione.

Oggi la considereremmo una modifica del territorio assolutamente intollerabile, proprio come pensava il guardiacaccia Menico.

Il geometra salvato in extremis da Silvio/Carlo, che lo tirò su per i capelli, era ancora l’autore, durante i rilievi in Val Stua, nel Comune di Imer. C’è una stretta valle scoscesa e le cose sono andate esattamente come raccontato nel testo.

Silvio era anche il personaggio che ha fatto fermare la jeep dentro cui risalivano la Val Noana, perché aveva visto una trota nel ruscello che scorreva lì accanto.

Infine, il tecnico che assieme agli strumenti topografici e ai canneggiatori di aiuto si recava in alta montagna con l’unico mezzo in grado allora di farlo, cioè l’Ape Piaggio, era sempre l’autore, cioè io.

Ho più volte effettuato sopralluoghi in punti disagiati del cantiere diga, trasportato in volo dalla Derrick.

I calcoli topografici venivano fatti a mano perché non esisteva allora alcun tipo di calcolatrice. Si usavano i logaritmi che, come è noto, consentono di trasformare le moltiplicazioni in addizioni e le divisioni in sottrazioni, cioè in operazioni che si svolgono facilmente con una matita, anche se si tratta di moltiplicare o di dividere numeri a molte cifre e decimali.

Un’ultima cosa.

Nel paese di alta montagna dove sono nato, venne assassinato durante un servizio in altura, un vero guardiacaccia che si chiamava Menico.

Della morte di quel Menico non si è mai saputo nulla.

Chi volesse conoscere meglio la straordinaria avventura topografica degli anni ‘50 legga l’articolo: “La topografia pratica degli anni ‘50”.

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